Captain Fantastic – con Viggo Mortensen

Di Washoe

Standing ovation e dieci minuti di applausi al Festival di Cannes costituiscono un discreto biglietto da visita per Captain Fantastic (2016), l’ambizioso film scritto e diretto da Matt Ross. Ambizioso perché si trova ad avere a che fare con tematiche delicate quali l’educazione e la società, provando a dare loro un taglio diverso da quello a cui siamo abituati. Viggo Mortensen è l’eccellente protagonista di questa pellicola che sa commuovere e toccare corde profonde, ponendo l’accento sull’importanza del contatto umano e sul significato della morte.

La famiglia Cash

Ben Cash (Viggo Mortensen) vive con la famiglia tra le montagne dello Stato di Washington, nel Nord-Ovest degli Stati Uniti. Con la moglie Leslie, Ben ha creato un piccolo angolo di mondo con regole proprie, dove vivere lontano dalle assurdità della società moderna e a stretto contatto con la natura. I loro sei figli (Bodevan, Kielyr, Vespyr, Rellian, Zaja e Nai) non sono mai andati a scuola ma sono stati educati dai genitori, sviluppando incredibili qualità intellettuali; vivendo nella foresta hanno inoltre imparato a scalare pareti rocciose, a cacciare armati di coltello, a curare ferite e a mettere in pratica numerosi altri metodi di sopravvivenza. All’inizio del film, però, Leslie non è con la famiglia: le è stato diagnosticato un disturbo bipolare, forse conseguenza del parto del primo figlio, e si trova per questo ricoverata in una clinica. Le cure mediche avanzate, tuttavia, non sortiscono l’effetto desiderato, e la donna si suicida. La famiglia Cash intraprende allora un lungo viaggio (che, per le premesse, ricorda quello dei Bundren di Mentre morivo) fino al New Mexico, dove dovrebbero assistere al funerale della madre. 

Ben Cash (Viggo Mortensen) nella loro casa sulle montagne

Il viaggio e le nuove sfide

Durante il viaggio la famiglia dovrà affrontare sfide a cui non è abituata. Il duro allenamento fisico e lo studio sui libri non ha infatti preparato i ragazzi ad affrontare la società, dalla quale sono stati abituati fin da piccoli a restare fuori: i ragazzi mancano di abilità sociali e relazionali, e vengono percepiti dai coetanei come stravaganti (o peggio). Soprattutto, si ritrovano ad avere a che fare con la famiglia della madre e con il nonno Jack, uomo ricco e conosciuto nella sua zona, che accusa Ben di aver rovinato sua figlia e i nipoti con le sue idee estremiste. Non solo: cristiano praticante, Jack rifiuta categoricamente di riconoscere la fede buddhista di Leslie e predispone per lei un funerale tradizionale, ignorando di fatto il suo testamento dove, disgustata dall’idea di essere sepolta in un cimitero, aveva espresso il desiderio di essere cremata, e che le ceneri fossero smaltite dallo sciacquone di un water. I Cash allora si ribellano e fanno di tutto affinché le ultime volontà di Leslie vengano rispettate, arrivando a trafugare la salma per bruciarla in una pira clandestina. Il viaggio, con le sue difficoltà, serve da lezione a Ben, che capisce di aver sbagliato ad allontanare i figli dal mondo e a rinchiuderli in una bolla, e decide allora di abbandonare la montagna e stabilirsi in una fattoria, per consentire loro di frequentare la scuola e i coetanei.

Zaja (Shree Crooks) mentre legge la lapide prima che la famiglia recuperi la salma della madre

L’educazione dei ragazzi

La vita creata dai Cash sulle montagne ha tutti i contorni di un ambizioso esperimento sociale che, dal loro punto di vista, è perfettamente riuscito, avendo cresciuto ragazzi straordinariamente colti e fisicamente forti. Tuttavia, Ben e il suo metodo vengono attaccati da più parti: dalla sorella Harper, dal suocero, ma anche dal figlio Rellian. E, in effetti, ad un certo punto del film i suoi detrattori sembrano anche vincere la contesa, nel momento in cui Ben decide di allontanarsi dai figli convinto di fare il loro bene. Sul finale, però, diventa chiaro come nessuna delle due parti avesse ragione: i detrattori sbagliano a credere che Ben abbia fallito, mentre lui non aveva capito fino in fondo qual era il suo vero merito. Non c’entra nulla, infatti, né con la cultura dei ragazzi né con la loro prestanza fisica, ma con l’essere sempre stato presente nella vita dei figli. In un mondo di genitori assenteisti, infatti, Ben ha scelto di dedicare ai suoi ragazzi la propria vita, per essere in prima persona la loro guida e la loro ispirazione: sentendosi davvero amati, rispettati e importanti, i Cash hanno imparato a dare il giusto valore all’affetto, al calore umano, alla libertà di essere sé stessi; sono diventati persone capaci di pensare con la propria testa, di ribellarsi all’autorità (quella del nonno) quando essa non rispetta i principi in cui si crede, e di comprendere nel profondo il concetto della morte. 

Il nonno materno Jack (Frank Langella)

Il rapporto con la morte

Questo in particolare è un aspetto su cui è bene soffermarsi. Il nostro mondo ha un rapporto ambivalente con la morte: siamo iper esposti ad essa ma soltanto attraverso gli schermi, tra film sanguinolenti e informazione che fa della cronaca nera la propria linfa vitale. Quando si passa al mondo reale, tuttavia, la temiamo: ci afferriamo disperatamente alla scienza affinché la allontani il più possibile (a volte con un vero accanimento terapeutico) e non ne parliamo mai, come fosse l’unico grande tabù del ventunesimo secolo. E, soprattutto, non ne parliamo mai ai bambini, raccontando loro che il cagnolino è andato a vivere in fattoria o che il pesce rosso tornerà a casa dopo averlo buttato nello scarico del water. Così, quando si trovano per la prima volta di fronte ad essa, sono completamente impreparati, e reagiscono con il diniego e la perdita selettiva di memoria. Quello che succede ai Cash è differente. A loro è stato insegnato a rispettare la morte, ad abbracciarla e a considerarla parte necessaria dell’esistenza: per loro essa è la materia del nostro corpo che ritorna alla terra, pronta a trasformarsi e a generare nuova vita. Grazie a questa predisposizione, sapientemente formata dai genitori anche attraverso l’esposizione alla morte nel mondo naturale, possono affrontare la dipartita della madre con una maturità invidiabile. La cerimonia di cremazione non è allora un rito funebre, ma una celebrazione della vita, il gioioso e salubre ricordo di ciò che di bello ha rappresentato la loro mamma. Così, le canzoni tenebrose lasciano spazio ad una versione acustica di Sweet Child O’ Mine che davvero lascia con le lacrime agli occhi. Ma non sono lacrime di dolore: sono lacrime di gioia, misurata, certo, ma sempre gioia.

La pira funebre di Leslie

La recitazione di Mortensen e dei ragazzi

Nelle scene finali e in tutto il resto del film, specie negli evocativi intermezzi onirici, Viggo Mortensen è straordinario per la forza con cui riesce a trasmettere al contempo la dolcezza di un padre e l’irremovibilità di un anarchico, e per la profondità con cui dipinge un uomo capace di ricredersi, di affrontare i propri errori e migliorarsi, sapendo chiedere perdono. La sua interpretazione rende complicato giudicare in maniera oggettiva Captain Fantastic, perché cattura inevitabilmente lo sguardo e il cuore dello spettatore. Nella parte del ribelle un po’ combattente e un po’ hippie ci sguazza, senza perdere assolutamente quel carisma magnetico che lo accompagna da inizio carriera. Ma non è il solo nel cast a colpire nel segno, perché anche i sei giovani ragazzi hanno fatto un lavoro davvero entusiasmante: teneramente uniti dall’inizio alla fine, hanno saputo esprimere una chimica che rende veramente credibile il loro legame fraterno. E gli sguardi complici che si scambiano mentre cantano durante la scena della cremazione sono semplicemente stupendi, tanto sentiti da sembrare reali.

Il significato profondo di Captain Fantastic

In quegli sguardi si trova la vera bellezza del film, il suo significato più puro. Perché se lo si guarda da un punto di vista analitico certamente Captain Fantastic non convince, dato che si ferma un po’ nel mezzo, dando ragione contemporaneamente a Ben e al nonno, come non volesse scontentare nessuno. Il finale stesso è un compromesso, sebbene la scelta della fattoria sembri essere il giusto bilanciamento tra la necessità di ribellarsi all’oppressione sociale e quella dell’incontro con altri esseri umani. Ma Captain Fantastic non è un film didascalico (per fortuna): non è un trattato sul capitalismo, né sull’educazione, né sulla società, come qualcuno avrebbe voluto che fosse. Esso vive e si nutre di occhi, di gesti, di voci, di emozioni; sono questi gli elementi che la rendono una pellicola straordinaria. I discorsi sul consumismo o sul Noam Chomsky Day sono accessori: il film non si propone certo di aprire la strada ad una rivoluzione sociale, ma vuole invitare a porre l’attenzione su valori che si stanno perdendo, come il senso di comunità, la solidarietà, l’affetto, il rispetto per la natura, il riconoscimento della diversità (ma quella vera, non quella da social network che va tanto di moda). Tutti valori che portano verso l’interiorizzazione di un concetto, che poi rappresenta il vero messaggio di Captain Fantastic: l’idea che gli esseri umani hanno bisogno gli uni degli altri, perché è soltanto nei rapporti più profondi e sinceri che possono trovare il proprio completamento e la propria felicità.

Il mio volto è mio, le mie mani sono mie, la mia bocca è mia. Ma io non lo sono, sono tuo.

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