Horacio Quiroga – Il cuscino di piume

(fonte: pinterest)

Una storia breve dell’uruguaiano Horacio Quiroga, capofila del racconto latinoamericano, in una nuova traduzione. Puoi leggere il testo originale a questo link.

La loro luna di miele fu un lungo brivido. Bionda, angelicale e timida, il carattere duro di suo marito gelò le bambinate da fidanzata che aveva sognato. Gli voleva molto bene, però, anche se a volte sentiva una leggera commozione quando, tornando insieme la notte per strada, lanciava un’occhiata furtiva alla grande statura di Jordán, muto da un’ora. Lui, da parte sua, la amava profondamente, pur senza dimostrarlo.

Per tre mesi – si erano sposati in aprile – vissero una strana felicità. Senza dubbio lei avrebbe desiderato meno severità in quel rigido cielo d’amore, una tenerezza più espansiva e incauta; ma l’espressione impassibile di suo marito la portava sempre a trattenersi.

La casa in cui vivevano influiva non poco sulle sue sensazioni. La bianchezza del patio silenzioso – fregi, colonne e statue di marmo – produceva un’impressione autunnale di palazzo incantato. Dentro, il brillo glaciale dello stucco, senza il più piccolo graffio nelle alte pareti, consolidava quella sensazione di freddo spiacevole. Passando da una stanza all’altra, i passi trovavano eco in tutta la casa, come se un lungo abbandono avesse sensibilizzato la sua risonanza.

In quello strano nido d’amore, Alicia trascorse tutto l’autunno. Ciononostante, aveva deciso di stendere un velo sui suoi antichi sogni, e viveva addormentata nella casa ostile senza voler pensare a nulla fino all’arrivo di suo marito.

Non è strano che dimagrisse. Ebbe un leggero attacco di influenza che si trascinò insidiosamente per giorni e giorni; Alicia non si riprendeva. Finalmente una sera poté uscire in giardino appoggiandosi a un braccio di suo marito. Guardava indifferente da una parte e dall’altra. All’improvviso Jordán, con profonda tenerezza, le passò molto lentamente una mano sul capo, e Alicia scoppiò immediatamente in singhiozzi, lanciandogli le braccia al collo. Pianse a lungo, per tutta la paura che aveva taciuto, raddoppiando il pianto ad ogni minima carezza di Jordán. Poi i singhiozzi cominciarono a rallentare, e rimase ancora a lungo nascosta nel suo collo, senza muoversi né dire una parola.

Quello fu l’ultimo giorno in cui Alicia si alzò dal letto. Il giorno seguente al risveglio si ritrovò svenuta. Il medico di Jordán la esaminò con grande attenzione, ordinandole tranquillità e riposo assoluto.

«Non so,» disse a Jordán sull’uscio, ancora a bassa voce. «Ha una grande debolezza che non mi spiego, e senza vomito, nulla. Se domani si sveglia come oggi, mi chiami immediatamente.»

Il giorno seguente Alicia al risveglio stava ancora peggio. Ci fu una consultazione. Fu constatata un’anemia in stato avanzatissimo, completamente inspiegabile. Alicia non ebbe più svenimenti, ma andava visibilmente incontro alla morte. Per tutto il giorno la camera da letto stava con le luci accese e in pieno silenzio. Passavano ore senza che si udisse il minimo rumore. Alicia dormicchiava. Jordán viveva quasi nella sala, anch’essa con tutte le luci accese. Passeggiava senza fermarsi da un estremo all’altro, con un’ostinazione instancabile. Il tappeto soffocava i suoi passi. Di tanto in tanto entrava nella camera e proseguiva il suo muto andirivieni intorno al letto, fermandosi un momento ad ogni estremità per guardare sua moglie.

Presto Alicia cominciò ad avere allucinazioni, confuse e fluttuanti al principio, e che discesero poi al livello del pavimento. La giovane, con gli occhi smisuratamente aperti, non faceva altro che guardare il tappeto ai due lati della spalliera del letto. Una notte rimase immobile all’improvviso guardando fisso. Dopo un po’ aprì la bocca per gridare, e le sue narici e le labbra si imperlarono di sudore.

«Jordán! Jordán!» urlò, rigida dallo spavento, senza smettere di guardare il tappeto.

Jordán corse nella camera, e vedendolo apparire Alicia lanciò un grido di orrore.

«Sono io, Alicia, sono io!»

Alicia lo guardò smarrita, guardò il tappeto, tornò a guardarlo, e dopo un lungo momento di confronto stupefatto, tornò in sé. Sorrise e prese la mano del marito tra le sue, accarezzandola tremante per mezz’ora. Tra le sue allucinazioni più persistenti, ci fu un antropoide appoggiato al tappeto con le dita, che teneva gli occhi fissi su di lei.

I medici tornarono inutilmente. C’era lì davanti a loro una vita che stava finendo, dissanguandosi giorno dopo giorno, di ora in ora, senza sapere assolutamente come. Nell’ultima consultazione Alicia giaceva nello stupore mentre loro le tastavano il polso, passandosi l’uno con l’altro il braccio inerte. La osservarono a lungo in silenzio, e si ritirarono nella sala da pranzo.

«Pst,» il medico di famiglia sconfortato si strinse nelle spalle. «È un caso inspiegabile, c’è poco da fare.»

«Ci mancava solo questa!» sbuffò Jordán. E tamburellò bruscamente sul tavolo.

Alicia si estingueva nel suo delirio di anemia, che si aggravava di sera, ma che sempre migliorava nelle prime ore della giornata. Di giorno la sua malattia non avanzava, ma ogni mattina si svegliava livida, quasi in sincope. Sembrava che unicamente di notte la vita le sfuggisse in nuove ondate di sangue. Al risveglio aveva sempre la sensazione di stare accasciata nel letto con un milione di chili sopra di sé. Dal terzo giorno la sensazione di abbandono non la lasciò più. Poteva a malapena muovere la testa. Non volle che le toccassero il letto, nemmeno che le sistemassero il cuscino. I suoi terrori crepuscolari avanzavano ora in forma di mostri che si trascinavano fino al letto, e si arrampicavano faticosamente sulla trapunta.

Perse poi conoscenza. Nei due giorni finali delirò incessantemente a voce bassa. Le luci continuavano ad essere funerariamente accese nella camera da letto e nella sala. Nel silenzio agonico della casa, non si sentiva altro che il delirio monotono che giungeva dal letto, e il sordo rimbombo degli eterni passi di Jordán.

Morì, infine. La serva, quando in seguito entrò a disfare il letto, rimasta sola, guardò per un momento il cuscino, stranita.

«Signore!» Chiamò Jordán a bassa voce. «Sul cuscino ci sono macchie che sembrano di sangue.»

Jordán si avvicinò rapidamente e si piegò sul cuscino. Effettivamente, sulla federa, su entrambi i lati del vuoto lasciato dalla testa di Alicia, si vedevano macchiette scure.

«Sembrano punture,» mormorò la serva dopo un momento di immobile osservazione.

«Alzalo alla luce,» le disse Jordán.

La serva lo alzò, ma lo lasciò cadere immediatamente, e rimase ferma a guardarlo, livida e tremante. Senza sapere perché, Jordán sentì drizzarsi i propri capelli.

«Che c’è?» mormorò con voce roca.                                          

«È molto pesante,» articolò la serva, senza smettere di tremare.

Jordán lo alzò; pesava in maniera straordinaria. Uscirono con il cuscino, e sul tavolo della sala da pranzo Jordán squarciò la federa e il rivestimento con un solo taglio. Le piume superiori volarono via, e la serva lanciò un grido di orrore con la bocca spalancata, portandosi le mani contratte ai lati della testa. Sul fondo, tra le piume, muovendo lentamente le zampe vellutate, c’era un animale mostruoso, una palla vivente e viscosa. Era talmente gonfio che la bocca sporgeva a malapena.

Notte dopo notte, da quando Alicia era caduta a letto, aveva applicato discretamente la sua bocca – o meglio, la sua proboscide – alle tempie di lei, succhiandole il sangue. La puntura era quasi impercettibile. La rimozione quotidiana del cuscino aveva senza dubbio impedito inizialmente il suo sviluppo, ma da quando la giovane non aveva più potuto muoversi, la suzione era stata vertiginosa. In cinque giorni, in cinque notti, il mostro aveva svuotato Alicia.

Questi parassiti degli uccelli, minuscoli in un contesto abituale, arrivano a raggiungere in certe condizioni proporzioni enormi. Il sangue umano sembra giovar loro particolarmente, e non è raro trovarli nei cuscini di piume.

L’uruguaiano Horacio Quiroga (fonte: pangea)

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