Omaggio a Bill Withers, poeta dell’R&B

È morto in silenzio Bill Withers, in un anonimo lunedì di marzo, in mezzo al clamore dell’epidemia di coronavirus. Se n’è andato senza far rumore, con la stessa discrezione con cui aveva lasciato il mondo della musica nel 1985, a soli 47 anni. L’universo del Soul e dell’R&B piange uno dei suoi autori più amati, capace di emozionare a più di quarant’anni di distanza dall’uscita del primo album con una voce calda ed avvolgente e con i suoi testi malinconici. Ed è scomparso proprio nel momento in cui la sua canzone Lean on Me (conta su di me) viene cantata in diretta streaming dai medici di tutto il mondo. Ma chi era Bill Withers?

Bill nasce in West Virginia alla vigilia della guerra, nel 1938, e rimane orfano di padre già all’età di tredici anni. Suo nonno era nato schiavo, e lui viene al mondo nell’epoca della segregazione razziale. Non ha un’infanzia semplice per via della sua balbuzie, che lo sottopone alle continue prese in giro dei compagni di scuola ma anche delle maestre stesse: l’offesa più grave gli arriva proprio da un’insegnante, che lo chiama handicappato. E come spesso accade, le sofferenze patite durante l’infanzia sono quelle che più di altre lasciano un solco profondo; persino da anziano gli era impossibile contenere le lacrime al momento di parlare delle offese ricevute da bambino. Cercando di farsi forza il piccolo Bill cresce, ma una volta diventato adolescente si rende conto di come nella sua cittadina non ci sia davvero nulla d’interessante da fare; per questo, compiuti i diciassette anni, si arruola nei Marines, dove inizia ad appassionarsi alla musica e al canto. Lasciato l’esercito lavora come meccanico in un’azienda fabbricatrice di aerei, e non inizia la carriera musicale fino ai trentadue anni. Non è facile trovare una casa discografica che creda in lui, soprattutto per via della sua età; tuttavia quando finalmente riesce a pubblicare il suo primo album (Just As I Am) è subito un grande successo.

Ma il successo non riuscirà mai a dargli alla testa, anzi: inizialmente non vuole nemmeno rinunciare al suo lavoro, perché vede la musica solamente come una grande passione e guarda con diffidenza al mondo delle case discografiche, troppo spesso attente più all’interesse commerciale che alla qualità del prodotto. Ed è proprio per questo che chi lo conosce personalmente non riesce a capacitarsi di come quella voce che in radio si sente ovunque sia davvero la sua: «Se dopo essere andato in tv la prima volta avessi raccontato al lavoro dove ero stato il giorno precedente mi avrebbero riso dietro.» Ma la fama lo raggiunge in fretta, e Bill comincia a girare gli Stati Uniti in tournée, ad apparire in tv e a vincere premi. È l’inizio di una carriera eccellente ma molto breve, che egli stesso decide di chiudere nel 1985 dopo soli quattordici anni di attività, stanco del mondo in cui era stato catapultato: «La mia era una vera vita quando ero nella marina e quando lavoravo.» Gli impongono troppe regole e lui non si sente più libero di seguire la propria ispirazione, e si sente svuotato, pesante.

Intervistato in occasione di un documentario sulla sua vita ha infatti raccontato delle continue pressioni che riceveva dalle case discografiche: «Se nessuno ti dà tutte quelle regole, tu semplicemente fai una canzone senza introduzione; anziché cantare tutto il tempo d’amore romantico fai una canzone d’amore riguardo a tua nonna, o fai una canzone d’amicizia, “à la” Lean on Me, cercando tra i tuoi sentimenti e le tue fragilità e la tua forza e le tue debolezze. Sei già abbastanza caricato dal peso di dover cercare quei sentimenti. E poi arriva un mucchietto di ragazzi cercando di dirti quello che devi fare con i loro sciocchi suggerimenti e tutta quella roba lì; sono quelli che chiamo Blacksperts, cioè ragazzi bianchi che credono di essere esperti su come un artista R&B dovrebbe essere.» E ancora: «Il gioco della fama mi stava prendendo a calci nel sedere.»

Anche se la sua carriera è stata breve, ha fatto in tempo a lasciarci alcuni autentici gioielli; primo tra tutti, senza dubbio, il suo pezzo più famoso, tratto dall’album Just As I Am: Ain’t No Sunshine. È una canzone triste, che narra di un uomo e del suo amore per una donna che scappa continuamente via da lui, lasciandolo solo ad affogare nel proprio tormento. La musica è molto semplice, suonata quasi sottovoce, e l’armonia ritmata della chitarra la fa da padrone; ma è soprattutto la voce di Bill, profonda, malinconica, leggermente graffiata, a trasmettere la vibrante emozione della canzone, da ascoltare da soli nel buio della propria camera in religioso silenzio. E nello stesso album sono presenti altre tracce sulla stessa lunghezza d’onda, che avvolgono l’ascoltatore e lo invitano quasi a lasciarsi andare ad un pianto consolatore, di quei pianti che riappacificano con il mondo e che fanno bene al cuore. Tra queste, degna di nota è Grandma’s Hands, nella quale si culla nel ricordo nostalgico delle mani di sua nonna, che suonavano il tamburello e gli porgevano caramelle.

Lo salutiamo con un po’ di commozione, con lo stesso rispetto e la stessa dolcezza che Bill ha sempre dimostrato in ogni occasione; soprattutto, con la reverenza che si deve a un grande poeta, cantore delle proprie emozioni più profonde, che non si è lasciato mai comandare dalla fame di denaro e di successo. E lo salutiamo con il pensiero che forse non è morto davvero, ma è semplicemente andato in paradiso a ritrovare le mani della sua cara nonna.

«If I get to heaven I’ll look for Grandma’s hands»

«Se andrò in paradiso cercherò le mani della nonna»

Washoe

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