Di Washoe
Nonostante La Grande Bellezza, il film del 2013 di Paolo Sorrentino, abbia ricevuto una lista interminabile di riconoscimenti italiani e internazionali, primi tra tutti l’Oscar al miglior film straniero e i nove David di Donatello, la sua ricezione nel Bel Paese non è stata delle migliori. E mentre la critica estera, ad eccezione di pochissime voci discordanti qua e là, si spendeva in elogi di varia natura, quella italiana si è dimostrata spietata nei confronti del lavoro del regista napoletano, accusandolo di voler imitare Fellini senza esserne all’altezza. E se da un lato Sorrentino non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’illustre maestro, dall’altra l’inserimento di alcuni omaggi nella sua pellicola non significa per forza che si tratti di un tentativo di emulazione fallito miseramente. Forse le accuse dei critici sono determinate dal porre scarsa attenzione al senso del film, per concentrarsi invece su paragoni che, se fatti con una tale leggenda del cinema, risulteranno sempre ingenerosi. Tanto più considerando che Fellini è ormai morto e, si sa, la dipartita di un artista, se unita alla nostalgia, può aumentarne a dismisura il valore dell’opera (ma la grandezza del regista de La Dolce Vita e Amarcord non è in discussione, ci mancherebbe altro). Che il film non piaccia è poi un altro discorso; forse il grande pubblico, fortemente critico in seguito alla prima visione del film in televisione, non l’ha apprezzato perché abituato a diversi ritmi narrativi, e il gusto personale è insindacabile. Ma stroncare una pellicola premiata un po’ ovunque, tacciandone il regista di presunzione, è stato sicuramente un errore.
Il protagonista, Jep Gambardella
Protagonista del film è Jep Gambardella (impersonato da un Toni Servillo particolarmente a proprio agio nella parte), giornalista culturale e autore di un bel romanzo giovanile che a causa di un blocco dello scrittore non ha avuto nessun seguito. Jep si muove in un mondo fatto di feste, donne e ipocrisia, e cerca di ingannare la propria noia attraverso le chiacchiere inconsistenti che ha con un ristretto gruppo di amici, accomunati dalle proprie personalissime sventure:
«Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro… O no?»
Viola è una ricca vedova, incatenata dalla malattia psichica del figlio; Dadina, la direttrice nana del giornale di Jep, ha una relazione incerta con Sebastiano, un poeta che non parla mai; Stefania è una scrittrice presuntuosa ed ipocrita di romanzi politicamente impegnati, che in realtà deve i propri successi esclusivamente ad una relazione con un capo partito; Lello è un imprenditore arricchitosi grazie alla parlantina e che, nonostante dica di essere felicemente sposato, è cliente abituale di un gruppo di prostitute. L’amicizia più sincera Jep la nutre verso Romano, scrittore teatrale che ha avuto poco successo e che lo ammira moltissimo; egli è l’unico della cerchia di amici che si rende conto di essere intrappolato in un labirinto senza uscita e che decide per questo di tornarsene in silenzio al proprio paesino di campagna.
Il ruolo di Roma
Il film è ambientato a Roma, ma la Città Eterna non è una semplice cornice: le sue scalinate, i suoi palazzi e i suoi monumenti sono parte integrante del racconto. È però una città vuota, nel senso più stretto del termine: non si vedono mai affollamenti per le strade e nei bar, e le persone a spasso sono poche. Sembra infatti essere bloccata dal peso della propria grandezza passata, che cerca di mantenere intatta con riguardo ma senza alcun desiderio d’emulazione, come esemplificato da un’immagine poco appariscente ma efficace: una galleria di bianche statue incellofanate presenti in casa di Orietta, donna con cui Jep ha un rapporto occasionale. E se nella sequenza iniziale Roma si presenta come appare ai turisti, bella, pulita, gloriosa, improvvisamente si viene catapultati nella sua dimensione più puramente mondana, fatta di festini improbabili e di sparsa volgarità. E le due facce tra cui è intrappolata si esprimono anche attraverso la colonna sonora, che rimbalza in maniera improvvisa tra la musica da discoteca e la musica classica, in un turbinio che trasmette efficacemente tutti i contrasti che Sorrentino vuole mettere in luce. Anche la nobiltà cittadina viene ritratta, ma è una nobiltà anziana e in decomposizione: dalle principesse ormai vecchie che giocano a carte in un angolo buio dei loro meravigliosi palazzi, tristemente lasciati in pasto all’oscurità, alla contessa decaduta con il vizio di contemplare la culla in cui è nata, ora esposta in un museo.
Vivere nel nulla
E in questo ambiente immobile si muove il protagonista, che con il passare del tempo ha una lenta ma significativa evoluzione, attraverso la quale la noia esistenziale si trasforma in consapevolezza. Si rende conto della vacuità di ciò che lo circonda, di come le chiacchiere, che fino ad allora erano state il tappeto sotto il quale nascondere la polvere, non lo soddisfino più. Non era stata la pigrizia, come ha sempre creduto, a precipitarlo nel suo blocco dello scrittore, ma piuttosto il vivere nel nulla:
«Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un nuovo romanzo. Ma guarda ‘sta gente, ‘sta fauna. Questa è la mia vita, non è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non c’è riuscito. Ci posso riuscire io?»
Ripercorrendo la strada fatta dal suo arrivo a Roma si rende conto d’esser precipitato fin da subito in quello che egli stesso chiama “il vortice della mondanità”, ossia il desiderio di essere al centro della vita cittadina, abbagliato dall’opulenza ostentata dei suoi abitanti. Dotato d’una sensibilità fuori dal comune, si è voluto calare in un mondo a cui non era destinato, lasciando da parte la sua arte per vivere nell’universo illusorio dell’alta società. E raggiunta questa nuova coscienza inizialmente non fa altro che annegare nella nostalgia, come quando nel soffitto di casa vede il mare di un ricordo giovanile; ma sono ricordi con cui non ha fatto pace e che non riesce nemmeno a raccontare, e che per questo non possono cagionargli altro che dolore.
L’illusione
Alcuni fatti drammatici però costituiscono una svolta nella sua vita: la morte del figlio dell’amica Viola (che nella versione estesa del film pare essere anche figlio suo), che lo addolora tanto da far crollare miseramente il teatrino che s’era proposto di mettere in scena al funerale; la morte della disincantata Ramona, l’unica donna in grado d’affascinarlo davvero, che se ne va a causa d’una malattia confidata solo a lui; e infine le rivelazioni del marito di Elisa, il suo primo amore, che gli racconta in lacrime d’essersi reso conto, leggendo il diario della moglie appena defunta, di come la donna non avesse mai smesso di amare il suo antico fidanzato. Crolla così tutto il castello d’illusioni dello scrittore, che aveva passato una vita nella convinzione che lei lo avesse dimenticato, cercando in ogni dove la bellezza della loro giovane passione senza mai riuscire a trovarla. E l’illusione è un tema centrale nel film, e diventa chiaro quando un prestigiatore fa sparire una grande giraffa in un’atmosfera quasi surreale alle Terme di Caracalla; Jep rimane affascinato dalla magia, e si rende finalmente conto di come la bellezza possa scaturire anche da un grande, meraviglioso trucco.
La Grande Bellezza
Ma non sono solo le morti a contribuire alla sua rinascita: la spinta decisiva gli viene data dalla pauperista Suor Maria, detta la Santa. La donna, ultracentenaria in visita a Roma, aveva letto il romanzo di Jep molti anni prima, ed era per questo desiderosa di cenare con lui. Alla fine della serata la monaca si addormenta in casa sua; quando Jep la raggiunge sul balcone la mattina dopo, all’alba, rimane estasiato: sul terrazzo, finalmente libero dal chiasso dei festini, si è posato uno stormo di fenicotteri in migrazione. Quello spettacolo (in)naturale è il simbolo della nuova consapevolezza dello scrittore, capace ora di vedere la bellezza intorno a sé. Il perché lo spiega la stessa Suor Maria, in una delle sue poche battute: «Lo sa perché mangio solo radici? Perché le radici sono importanti.» Fatta finalmente pace con la propria storia attraverso il percorso compiuto nelle ultime settimane, Jep riesce ad incontrare l’ispirazione per il suo prossimo romanzo. Il senso profondo del film è racchiuso nel suo monologo finale:
«Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla.»
La Grande Bellezza tanto ricercata era sempre stata lì, sepolta sotto uno spesso strato di chiacchiere che lo rendeva cieco all’incanto e alla meraviglia. Ma c’è di più: egli cercava la Grande Bellezza nella sua totalità e lasciava passare inavvertita l’unica sua manifestazione visibile, ossia gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E allora l’anziana suora che sul finale sale in ginocchio la Scala Santa diventa rappresentazione del percorso di Jep, faticosamente ritornato alla luce, che riesce adesso a rievocare la bellezza del proprio passato, per convertirla in un nuovo libro.
«Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.»
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