Trainspotting (libro) – Irvine Welsh

Di Washoe

Trainspotting, che si parli del libro (del 1993) o del famosissimo film (uscito nel 1996, avendo il merito, tra le altre cose, di lanciare la carriera di Ewan McGregor), è senza dubbio un simbolo importante degli anni Novanta, per via dell’impatto avuto con la cultura di massa e per la capacità di mettere a nudo le persone di fronte a grandi questioni della società contemporanea. Il romanzo, il primo per lo scrittore scozzese Irvine Welsh, narra dall’interno il degrado che sul finire degli anni Ottanta caratterizzava le strade di Leith, il sobborgo proletario di Edimburgo, tra droga, alcolismo e HIV.

II realismo estremo

Ciò che colpisce fin da subito nel romanzo è un realismo esasperato fin quasi all’eccesso, capace di provocare rabbia, disgusto e persino conati di vomito, rendendolo altamente sconsigliato per i deboli di stomaco. Lo stile dei dialoghi è sboccato, volgare, irriverente, ma assolutamente aderente alla realtà che vuole raccontare (come sempre dovrebbe essere). Welsh non si fa mai condizionare dalla censura benpensante e fa bene, perché i “cavolo” e i “mannaggia” non farebbero altro che minare dalle fondamenta il suo tentativo di dipingere un quadro realistico di una realtà di cui, nella sua gioventù, era stato egli stesso testimone a attore.

La composizione di Trainspotting

Ad essere precisi, tuttavia, quella del quadro non è l’immagine più adatta; ciò che fa Welsh, piuttosto, è creare un grande mosaico di tessere dai colori assurdi, appiccicate un po’ dove viene a formare quasi per caso il disegno completo. Il romanzo potrebbe essere ascritto senza problemi alla categoria della raccolta di racconti: Trainspotting si compone di una serie di storie brevi narrate da punti di vista diversi, molto spesso in prima persona, che susseguendosi senza soluzione di continuità contribuiscono a creare l’immagine finale, come accendendo un pixel alla volta. Le prospettive multiple, i cambi repentini di tempo e di spazio, i passaggi dalla prima alla terza persona e viceversa rendono nel complesso la narrazione molto confusionaria, ma anche particolarmente adatta a rendere il dinamismo e il caos totale della vita sbrindellata dei protagonisti. E danno anche un forte senso di realtà, perché dopotutto la conoscenza reale, la cosiddetta esperienza, si costruisce non tramite racconti lunghi e coerenti, ma con ciò che si riesce a captare un po’ qua e un po’ là.

Irvine Welsh (fonte: zero)

I personaggi principali

I personaggi che popolano l’universo di Trainspotting sono moltissimi e ognuno viene accompagnato dal proprio vizio, ma ce ne sono alcuni che più degli altri potrebbero fregiarsi del titolo di “personaggio principale”: si tratta di Secondo Premio, Begbie, Sick Boy, Tommy, Spud e Renton. Il primo è un alcolista presente in molte scene, ma che raramente parla, pensa o agisce; Begbie è invece un uomo spregevole, represso e pieno di sé, la cui grande dipendenza è la violenza: ogni scusa per lui è buona per fare del male a qualcuno, specie se si tratta di un innocente. Sick Boy è un ex eroinomane che ha abbandonato la droga dopo la morte di una figlia in fasce, sostituendola con il sesso. Infine Tommy, Spud e soprattutto Mark Renton (il personaggio che più di tutti spicca per acume e protagonismo) sono i più classici dei tossicodipendenti.

La morte, la droga, la violenza nella vita dei ragazzi di Leith

La presenza costante nella vita altalenante di questi ragazzi è rappresentata dalla morte, che di soppiatto arriva a prendersi una alla volta alcune delle persone a loro vicine. Eppure, i protagonisti sembrano quasi non accorgersene. La prendono non con leggerezza, cosa che implicherebbe in un certo senso l’averla prima affrontata e poi compresa, ma con noncuranza: l’unica cosa che conta per loro è l’espletamento delle necessità dettate dalle loro dipendenze. Ma ci sono anche altre entità che gettano le proprie ombre sul libro, come la violenza o l’eroina. Attenzione: le gettano sul libro, non sui personaggi, ormai troppo abituati a bucarsi o a vedere gente bucarsi, a picchiare o ad essere picchiati. Ma questa malsana assuefazione è destinata ad essere messa a dura prova da un nemico inatteso.

Una scena dal film Trainspotting (1996): uno dei protagonisti, Mark Renton, dopo una dose di eroina.

L’epidemia di AIDS

Le siringhe e gli aghi, diventati una parte così importante delle loro vite, si rivelano infatti essere vettori implacabili del virus HIV, e due delle cause dell’epidemia di AIDS che tra il finire degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta ha terrorizzato il mondo intero. Nel libro si esplorano tra le altre cose le conseguenze della diffusione improvvisa della malattia, in un’epoca in cui di HIV si sapeva poco e c’era una grande confusione, specie riguardo alla sua trasmissione. C’erano persone che non volevano nemmeno toccare un sieropositivo per paura del contagio, sieropositivi che venivano trattati come untori per il solo fatto di avere contratto il virus, e sieropositivi che untori lo erano per davvero, vuoi per ignoranza, vuoi per incredulità, vuoi per rabbia contro la vita. I ragazzi di Trainspotting non sono preparati ad affrontare un nemico del genere, subdolo e inaspettato, e questo spezza il fragile equilibrio su cui camminano, costringendo alcuni di loro a riconsiderare le proprie scelte.

La critica sociale del libro

Con Trainspotting Welsh, oltre a rappresentare la realtà, elabora una mordace critica sociale. Ma non ci si lasci condurre a conclusioni affrettate: essa non interessa direttamente i drogati o il degrado di Leith, ma è sorprendentemente indirizzata piuttosto al mondo delle persone normali, dei benpensanti, dei colletti bianchi; per usare parole del libro, al mondo degli elettrodomestici, delle rate e dei quiz in tv. I ragazzi di Leith vedono infatti quel mondo ma lo aborriscono perché ne percepiscono tutta la vanità, tutta l’ipocrisia; si rifiutano di entrare nel circolo vizioso di chi lavora per pagarsi le rate dell’auto, di chi una volta estinto il debito va immediatamente in cerca di qualcos’altro da comprare, o di chi si fa ipnotizzare dalla tv ogni sera sprofondando nel divano pur di non dover fare i conti con una vita in fondo priva di significato. Ne sono schifati, ma non viene offerta loro nessuna alternativa: coloro che non appartengono vengono rigettati e trattati come rifiuti, e finiscono così per cercare rifugio in qualcosa che li narcotizzi. L’eroina, le droghe, l’alcol, la violenza fine a se stessa e il crimine sono in fondo le uniche vie che trovano per sfuggire alla morsa del colletto bianco, gli unici sfoghi per un’ansia di ribellione che li stritola e li soffoca.

Un’altra scena tratta dal film.

«Siamo poi così diversi, tu ed io?»

I benpensanti disprezzano i drogati per questo, li guardano con un misto di commiserazione e di superiorità ma, in fondo, hanno bisogno di loro per avere un metro di paragone che li faccia sentire migliori di quello che sono (Tony Montana docet, in una famosa scena di Scarface), per affogare la vaga sensazione di disprezzo che da qualche parte sentono per se stessi. Ma da Trainspotting viene anche fuori che tra le due categorie le differenze sostanziali sono davvero minime; i drogati hanno soltanto scelto una dipendenza diversa da quel consumismo che domina pressoché tutti i livelli della società. Una dipendenza, quella dall’eroina, che è capace di offrire loro una botta edonistica di vita che li fa sentire reali, che li fa esistere in un mondo dove i sobri si voltano dall’altra parte e fingono di non vedere, per non essere messi di fronte ad un’immagine che, in un certo senso, rappresenta anche la loro.

Choose life

Ma l’eroina non può essere la risposta: è un mostro che prosciuga lentamente l’energia vitale dei suoi consumatori fino a lasciarli senza forze, in attesa che qualcosa, un incidente o una malattia, dia il colpo di grazia. Dopo una serie incalcolabile di alti e bassi (incalcolabile perché davvero il loro numero non è del tutto chiaro nel libro), di disintossicazioni e ricadute, uno dei personaggi, Mark Renton, lo capisce e decide di fare una scelta drastica, radendo al suolo la propria vita per costruirne una nuova, fuggendo da un posto e da degli amici ormai diventati veleno. Concludendosi con la sua fuga verso Amsterdam, tuttavia, il romanzo non chiarisce se lui riesca a ricominciare davvero: la sua incapacità di tenersi lontano dai guai e il suo viscerale disprezzo per la società fanno presagire che qualcosa dovrà per forza andare storto. Mark Renton resta ad ogni modo il personaggio più interessante dello straordinario romanzo di Welsh, tanto che la maggior parte delle riflessioni più pungenti arriva da lui. Anche la più famosa, tratta dal passaggio che ha ispirato il celebre monologo iniziale del film, e che sintetizza in un certo senso l’idea, lo spirito, il messaggio del libro. Choose life, scegliete la vita, ci dicono. La vita che vogliono per noi. Ma, in fondo, perché dovremmo farlo?

«[…] lo vedono come un segno del loro fallimento, il fatto che tu scelga semplicemente di rifiutare quello che loro hanno da offrirti. Scegli noi, scegli la vita. Scegli il mutuo da pagare, la lavatrice, la macchina; scegli di startene seduto su un divano a guardare i giochini alla televisione, a distruggerti il cervello e l’anima, a riempirti la pancia di porcherie che ti avvelenano. Scegli di marcire in un ospizio, cacandoti e pisciandoti sotto, cazzo, per la gioia di quegli stronzi egoisti e fottuti che hai messo al mondo. Scegli la vita. Beh, io invece scelgo di non sceglierla, la vita. E se quei coglioni non sanno come prenderla, una cosa del genere, beh, cazzo, il problema è loro, non mio.»

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