Rayuela, di J.Cortázar – Parte III: il gioco e la leggerezza

Rayuela parte III

Di Washoe

Leggi anche la Prima e la Seconda parte dell’articolo.

Sulla scia di altri autori, che hanno sostenuto l’importanza della leggerezza nella letteratura e dell’origine ludica della stessa (tra questi si ricorda l’italiano Calvino), Cortázar ha scelto di non lasciarsi risucchiare dal vortice dell’argomento di Rayuela, di per sé estremamente serio e giocato su di un piano filosofico e gnoseologico, ma di mantenersi sempre un po’ al margine delle discussioni metafisiche, lasciandole piuttosto ai personaggi (Oliveira e Morelli su tutti). Con questo espediente è riuscito a porsi, si potrebbe dire, in una posizione sopraelevata rispetto al suo romanzo, garantendosi la possibilità di guardare alle cose con distacco e in una chiave spesso sottilmente ironica e giocosa. Non solo: in un tentativo di dissacrare quel linguaggio che in Rayuela cercava di demolire (vedi la seconda parte dell’articolo), Cortázar ha dato nella sua opera un ruolo di primo piano, anche narrativo, allo scherzo e, più in generale, al gioco, partendo già dal titolo.

Il significato del titolo di Rayuela

La Rayuela che dà il nome al romanzo, infatti, non è altro che la versione argentina del gioco del mondo (in alcune regioni d’Italia chiamato anche campana o settimana), divertimento infantile giocato con una pietra e uno schema di caselle numerate disegnate col gesso sull’asfalto o sul cemento; scegliendolo come titolo, Cortázar eleva quel gioco tanto semplice a simbolo della ricerca portata avanti da Oliveira e, indirettamente, dall’autore stesso. Essa viene ad essere un’allegoria del mondo e dell’uomo che prova a barcamenarsi in esso potendo utilizzare soltanto i pochi strumenti messi a sua disposizione dal gioco (che simboleggia la natura): un sassolino e una gamba sola. Solamente i più bravi arrivano al fondo, a conquistare l’ultima casella, che in Argentina viene chiamata cielo; e chi sono più bravi alla Rayuela se non i bambini? Il significato di questa analogia è piuttosto chiaro: i fanciulli sono più capaci degli adulti non soltanto nel gioco del mondo, ma sono migliori anche nell’affrontare la realtà, poiché ancora non sono stati rovinati dagli schemi sociali e razionali che imbrigliano “i grandi” e impediscono loro di raggiungere il cielo, che rappresenta la vera conoscenza delle cose. Questo parallelismo lascia intendere come la centralità data al gioco non tolga “importanza” e serietà al romanzo, poiché esso, in Rayuela, non è mai fine a se stesso o al divertimento puro. Il gioco, assieme allo scherzo, all’ironia, all’umorismo è per Cortázar un’arma efficacissima per compiere la rivoluzione che è l’obiettivo principe del romanzo: si tratta di un vero e proprio strumento di conoscenza o, per essere più precisi, di conoscenza immediata (non-mediata dalla ragione), pura e simile a quella dei fanciulli.

Gioco del mondo
Il gioco del mondo (fonte: iraida2)

Il gliglico e il capitolo 68: prendersi gioco della parola

Nel discorso si inserisce il capitolo 68, dove la destrutturazione del linguaggio assume i contorni di un gioco puerile (ma fino ad un certo punto) costituito da una lingua inventata da Oliveira e dalla Maga, chiamata gliglico. Il capitolo è scritto per intero in questo linguaggio infantile; al lettore non viene data nessuna traccia di lettura, eppure anche così è possibile comprendere il senso della narrazione: si tratta di un’esplosione d’amore tra i due protagonisti, comprensibile perché, per esprimere le sensazioni, l’autore si avvale della musicalità del linguaggio, lasciando da parte il suo significato codificato e dunque la sua interpretazione razionale. Il lettore arriva quasi a credere di saper parlare il gliglico, e attraverso questo virtuosismo Cortázar dimostra la sua straordinaria capacità di prendersi gioco della parola e di tutte le strutture sociali che in Rayuela cerca di colpire.

Appena lui le amalava il noema, e lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti. Ogni volta che lui cercava di lequire le incopeluse, si avviluppava in un grimaldo lamentoso e doveva invulsinarsi di fronte al novelo, sentendo in qual modo a poco a poco le arniglie si specunnavano, peltronandosi, redduplinandosi, fino a restare come il trimalciato di ergomanina al quale sono state lasciate cadere delle fillule di cariconcia.

Un estratto del capitolo 68

La follia e il gioco dei cordini

Essendo questa l’importanza data agli svaghi infantili in Rayuela, non è un caso che la follia finale di Oliveira si palesi proprio sotto forma di un gioco, un gioco di cordini, una di quelle linee di difesa militari immaginarie che costruiscono bambini. E allo stesso modo in cui quando si è fanciulli il gioco diventa una cosa estremamente seria, così quando Traveler mostra di volersi avvicinare ad Oliveira e violare quello spazio che, nella sua immaginazione, i cordini avrebbero dovuto difendere, egli minaccia di gettarsi dalla finestra, dimostrandosi disposto a tutto pur di vincere la sua finta battaglia. È bene notare, però, come nemmeno in quei frangenti il gioco cessi di essere uno strumento di conoscenza: parlare di follia riferendosi alla linea difensiva di cordini e bacinelle costruita da Oliveira è dunque un errore, perché significa cadere ancora in quegli schemi che Horacio e il romanzo intero cercano di demolire. Di fronte ad uno sguardo razionale, infatti, una volta arrivati alla fine del libro è evidente come la ricerca di Oliveira sia fallita miseramente, caduta, per usare un’immagine presa in prestito dal romanzo stesso, nel buco nero di un enorme imbuto. Ma questa è soltanto un’interpretazione costruita attraverso le categorie della ragione: è davvero così, o piuttosto Oliveira è finalmente riuscito in quel frangente a tornare ad una condizione infantile, che lo rende dunque più vicino che mai al cielo della Rayuela, cioè alla vittoria nel gioco, alla verità che stava cercando?

Cortazar
Julio Cortázar (fonte: nelterritoriodeldiavolo)

La conclusione di Rayuela e la “monelleria” finale di Cortázar

Non è questa l’unica questione lasciata aperta dal romanzo, anzi, Cortázar ne apre diverse e in maniera del tutto intenzionale, per prendersi un po’ affettuosamente gioco del lettore, come farebbe un padre burlone. E infatti il romanzo si conclude con un gigantesco punto interrogativo su ciò che succede davvero ad Oliveira: dopo essere volato giù dalla finestra (non viene detto chiaramente, ma lo si capisce dagli impacchi freddi che gli vengono applicati), Horacio viene rinchiuso nell’ospedale, come lasciano intendere alcuni capitoli, o piuttosto ritorna da Gekrepten, come suggeriscono altri? Oppure i capitoli in cui si trova in casa raccontano in realtà di Oliveira che, rinchiuso nell’ospedale sotto effetto di morfina, pensa a come sarebbe stata la sua vita con Gekrepten se avesse accettato i limiti della società occidentale? O ancora: non è da escludere (anche se si tratta di una ipotesi poco probabile) che la storia dei cordini sia soltanto un sogno, e che il vero Oliveira sia sempre rimasto a casa con la sua fedele compagna. Quest’incertezza, in fondo,è però la bellezza del libro, scritto non per rispondere a delle domande ma per ispirarle; scritto per commuovere, sconvolgere, innervosire, fare arrabbiare. Ma anche per suscitare qualche risata, ed invitare l’essere umano a prendersi un po’ meno sul serio e a rendersi conto delle potenzialità enormi del gioco e della leggerezza. Ed è per questo che Rayuela si chiude con un piccolo scherzo, quasi una monelleria: il capitolo 58 manda a leggere il 131, che rimanda a sua volta al 58 e poi al 131 e ancora al 58 , in un gioco infinito che è metafora di tutte quelle ricerche, quelle di Oliveira, quelle di Cortázar, quelle dell’essere umano in generale, che sono destinate a non avere mai davvero una fine. Davanti ad una situazione del genere, dopotutto, non ci resta che… ridere.

Cortazar

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