Pane e cinema

Un racconto di Susanna Trippa

Bologna (fonte: bolognauncovered)

Sono cresciuta a pane e cinema nella Bologna dei primi anni Sessanta.

Ci fosse il sole o piovesse, mia madre ci prendeva per mano me e mio fratello, fin da quando eravamo alti così,  ancora con il grembiulino delle elementari, ed entravamo nella sala buia… con un panino che mia madre ci passava, srotolandone a metà la carta.

Negli anni delle medie, a fine mattina, uscivamo tutti e tre dallo stesso edificio, ché io ero in prima e mio fratello in seconda, e mia mamma insegnava in quella scuola.

Era una scuola del centro, un bel palazzetto Novecento con la sua ampia scalinata davanti, troneggiante su un lato di una piazzetta circolare dove, seduto su una panchina,  potevi ascoltare lo zampillio dell’acqua nella fontana mentre i  piccioni ti cercavano le briciole in mano, e in autunno foglie gialle mischiate a castagne genge ricoprivano il terreno. La mamma ci diceva di tenerne una in tasca, ci avrebbe protetti dal raffreddore; a volte, con un sorriso tra il misterioso e l’ironico, aggiungeva che ci avrebbe anche portato fortuna.

Chi usciva per primo da scuola aspettava gli altri, seduto nella piazzetta, a leggere o a scorrere già i compiti per il giorno dopo.

Il primo film del pomeriggio lo proiettavano alle due: a volte stavamo là all’entrata del cinema scelto, per qualche minuto, ad aspettare che aprisse.

Vedevamo un po’ di tutto tranne, penso adesso, quelli che la mamma non riteneva proprio adatti alla nostra età, ma la sua censura aveva sicuramente maglie piuttosto larghe.

Il cinema ci accoglieva come una cuccia calda. Anche la mamma doveva avvertirlo perché subito un accenno di sorriso le distendeva i lineamenti. Ce ne stavamo assorti, sulle dure poltroncine di legno o ben comodi in quelle morbide rivestite di velluto; il bello era assaporare quella storia che, nel buio della sala, si dilatava dal grande schermo sino a noi.

Se il film ci era piaciuto tanto lo si rivedeva, almeno un pezzetto, e quando ci si alzava dalla poltrona e ci s’incamminava verso l’uscita, si andava adagio adagio con lo sguardo ancora rivolto allo schermo. La mamma ci sospingeva con leggeri colpetti, scostava infine la pesante tenda di velluto che ci avvolgeva ancora un attimo col suo odore di polvere e tabacco… ed eravamo fuori.

Uscire dal cinema e così, bruscamente, abbandonare la storia in cui ci eravamo immersi, sul momento ci stordiva… i passanti… le macchine… le luci delle vetrine.

Si andava a casa, parlando ancora tra noi del film o ridendo ‘da matti’ per qualcosa che ci pareva tanto buffo. Erano belli anche quei momenti… della vita reale che piano piano ci riprendeva dopo quella virtuale, come si direbbe adesso.

  A casa, io e mio fratello facevamo i compiti mentre la mamma preparava le lezioni del giorno dopo o correggeva fogli su fogli.

Mio padre non c’era, non c’era e basta; ci eravamo abituati.

Lui stava a Parigi, nel 6° arrondissement, in centro sì, ma in un appartamento spettrale all’ultimo piano dove non voleva neppure il telefono e… dipingeva.

Ritornava in estate. E la nostra vita cambiava. La mamma era tesa, tra l’eccitazione e il pianto, sempre ansiosa di compiacerlo, e noi due… ci guardava in un altro modo, come attraverso.

Lui giocava con noi a volte, improvvisava sorprese che allora mi parevano strabilianti e, se c’era qualche soldo in più, ci faceva regali principeschi.

Ma poi tornava l’autunno. Lui se ne andava, e la mamma ridiventava più triste… ma più serena.

Noi la ritrovavamo, e con sollievo ritrovavamo anche il nostro tranquillizzante modo di stare insieme.

In autunno ritornavamo al cinema.

Campeggia nella mia memoria, tra i ricordi di quegli anni, un pomeriggio di novembre.

Un crepuscolo umido e uggioso aveva oramai calato il velo sulla città, in modo così definitivo da parere che l’autunno, e poi l’inverno, mai più ci avrebbero lasciato.

Il pomeriggio se ne andava così, ingoiato dal buio. Gettai un’occhiata verso l’atlante alla mia sinistra, aperto sulla carta fisica della Scandinavia che, con il suo merletto intricato di fiordi, ne invadeva entrambe le pagine; era di stamattina l’introduzione dell’insegnante sulla miseria delle ore di luce lassù in inverno… m’invase un silenzioso sospiro… poveretti!

Guardai fuori dalla finestra: da quanto ero là a tradurre? Il tetto della casa di fronte già se n’era andato in un nero fondo. Spinsi sbuffando la sedia all’indietro: pausa!

Scivolai nel corridoio in ombra e in punta di piedi, dinanzi alla porta socchiusa della cucina, mi fermai. Dalla grossa pentola scoperchiata borbottava l’acqua, mentre in superficie si formava la schiuma del brodo; tra poco la mamma si sarebbe levata dal tavolo e con un gesto abituale l’avrebbe tolta con la schiumarola, ma intanto la matita rossoblù andava e veniva nell’aria vergando segnacci.

Passai oltre. Mio fratello mi volgeva le spalle, seduto al tavolino, nel suo cono di luce.

Riconobbi, a lato del suo braccio destro, la copertina telata di un verde scolorito… il vecchio dizionario… anche lui latino! Come se il mio sguardo prendesse le apparenze di una puntura di spillo, lieve ma decisa, dopo pochi istanti si girò a guardarmi.

Assorto, con una sfumatura interrogativa…”Pausa!” dissero i miei occhi… “Va bene.” risposero i suoi, e con un gesto ampio e lento, stirandosi tutto come fosse seduto là da mesi, si alzò.

Perché in quegli anni ci capivamo tanto mio fratello ed io? Forse ci univano le strane estati con i nostri genitori che ‘sparivano’ anche quando li avevi sotto gli occhi. Forse era anche quel sentirci sempre un po’ diversi dagli altri… con quel nostro andare al cinema quasi tutti i giorni.

 ‘Pausa’ voleva poi dire gironzolare per le stanze, chiacchierando e fantasticando a ruota libera, per un quarto d’ora al più.

A luci spente ci mettemmo dietro ai vetri. Proprio di fronte a noi, al di là della strada, c’era una bella casa con due grandi finestre illuminate. Protetti dal buio guardavamo all’interno, sempre alla ricerca di qualcosa perché il nostro divertimento più grande era… immaginare e inventare storie.

Anche quel pomeriggio l’occhio vagava, ma distrattamente, perché ci si annoiava… diavolo… non accadeva mai niente di nuovo!

E così lo sguardo, nel suo vagare, trovò  il punctum della scena.

Giù in strada, proprio all’angolo della casa osservata, tra le lacrime di pioggia che cadevano dal cielo – sempre in seguito sarebbe riapparsa in me quell’immagine – un uomo, con impermeabile chiaro, mosse il braccio verso una donna che gli stava di fronte.

Lei, che reggeva un grande ombrello giallo, lo lasciò cadere, si portò una mano al cuore e cadde a terra su un lato, così di colpo, come una marionetta cui avessero staccato i fili.

L’uomo fuggì via.

Accorsero passanti dall’occhio dei portici sotto di noi, un’auto si fermò di traverso, e poi un’altra.

La  donna, a terra, non si muoveva. Nel buio, rischiarato a tratti dalla luce dei fari, appariva e spariva una macchia scura all’altezza del cuore.

Fu la mamma a raggiungerci, avvisata non so più da chi.

Noi eravamo rimasti là, immobili, nel vano della finestra come nel buio del cinema… a seguire, attimo dopo attimo, un delitto consumato sotto i nostri occhi.

La finzione che si faceva realtà dinanzi al nostro sguardo attonito… il nostro fantasticare di ragazzi che non sarebbe più stato lo stesso.

La fotografia dell’autrice

Questo racconto di Susanna Trippa è il vincitore del 1° premio Albero Andronico “Cinecittà – l’occhio del cinema sulla città” (2009)

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