Un racconto di Richard Eugen Unterrichter
Oggi, anche se è festivo, t’hanno richiamata al lavoro, e sebbene sia dispiaciuto tu debba rinunciare al giorno di riposo e sapendo che certo sarà pieno e difficile, non posso nascondere un certo piacere di stare qui, solo ad aspettarti. Lo sento da quando, uscendo, m’hai dato un bacio dolcissimo prendendoti il tempo che non avevi… mi hai fatto sentire sicuro. Grazie, Amore.
Più tardi mi sono fatto il tè con i biscotti, quelli con la casetta che ci piacciono tanto, e mentre sono nel letto ti penso, sguardo al soffitto che racconta non ricordi né sogni, ma sentimenti profondi. Così t’immagino già in cantiere tra mille uomini grandi, grossi e indaffarati che con i loro caschi, imbragature e guanti tagliano, piegano, torniscono ferri e fili, abbattono muri e costruiscono luoghi sicuri dove centinaia di altre persone andranno tutti i giorni a lavorare con il sole e con la pioggia, d’estate come d’inverno. Tu, che sei così dolce con me, sempre presente e pronta a comprendermi e coccolarmi, sai coordinare anche un cantiere.
Rimetto a posto la camera. Mi piace avere tra le mani il tuo pigiama rosa, scolorito e sbrindellato, di cotone morbido; sento il tuo profumo mentre lo piego, lo aggiusto e lo sistemo sotto il cuscino. Il cuscino… non è il tuo cuscino… non è il mio cuscino… è il cuscino… L’hai portato tu a casa un giorno, è di aloe vera, per sostituirlo con quello che avevo preso io a buon prezzo in qualche grande magazzino alcuni anni prima. È il cuscino perché non ho mai dovuto chiedertelo, ma da sempre dormiamo solo su quello, spesso abbracciati. Spesso mi sveglio la notte ed anche quando abbiamo litigato lo faccio: apro gli occhi, ti accarezzo, ti bacio, mi riaddormento. Mi dai sicurezza, non perché mi senta protetto, ma la mia serenità deriva dal vederti tranquilla, vicina a me. Mi piace averti addosso e mi piace sentire la tua mancanza, quando andiamo a letto arrabbiati e mi dai le spalle e mi spingi via con il sedere. Ma dormiamo sempre sullo stesso cuscino.
La vita mi fece arrivare nella tua quando ti laureasti: che bella eri! Quando t’incontrai, quel giorno alla stazione, dall’agitazione tenevo a testa in giù i fiori che avevo comprato poco prima da una signora, molto accogliente e gentile, con cui non avevo trattenuto la mia emozione:
«Sono per una ragazza che vedo per la prima volta.»
Sentendomi vibrare la voce arrossii. La rivedo ancora mentre, leggermente china sui vasi di fiori di stagione, s’era alzata e guardandomi teneramente mi aveva fatto un sorriso dolce, e con voce flautata aveva risposto:
«Vedrai che andrà bene!»
Alla stazione ero arrivato con un’ora di anticipo. Fumavo e mi guardavo le scarpe. Avevo scelto quelle di pelle scamosciata nera che avevano un giusto accenno di tacco, le uniche a tono con la giacca doppio petto di velluto nero a costine che avevo. Avevo scelto quei vestiti non per impressionarti, ma perché erano quelli che allora sentivo rappresentarmi di più e credevo mi facessero più carino, mentre la doccia me l’ero fatta alle sei della mattina per avere i capelli più lucenti e morbidi possibile e un buon odore di pulito.
Che emozione! Per risolvere la tremarella alle mani avevo trovato come soluzione il fumare una sigaretta, mentre il cuore pompava per due. Così, con le mani impegnate, credevo di non rendermi troppo ridicolo agli occhi di chi, distrattamente, avrebbe potuto vedermi così fragile. Poi era squillato il cellulare, e felicissimo di sentire una voce amica avevo preso a rovistare nelle tasche con la mano liberata. Ma poi? Ah, che figura ridicola devo essere stato quando con il cellullare all’orecchio volevo fumare con la stessa mano dei fiori, che mi coprivano così di polline il ciuffo… Poi una voce, forte come quella di Dio:
«Il treno regionale sdljfkadjlsja (non capii) è in arrivo al binario 1.»
Quanta gente scendeva da quel treno di metà mattina! Non ti avevo ancora vista dal vivo e non ti riconoscevo tra tutti quegli uomini, donne, ragazzi e ragazze, bambini… Il treno sbuffava, il capotreno fischiava, ciaoni partivano da sconosciuti che felici abbracciavano genitori, figli, mogli, fidanzati, ma di te niente. M’ero allora voltato alla carrozza di testa, l’unica che avevo alle spalle, niente. Tremavo come una foglia, la sigaretta fumava a terra, il telefono non so. Girandomi di nuovo, come un incantesimo meraviglioso, era caduto ogni rumore e a ben tre vagoni di distanza ti avevo riconosciuta subito. Venivi verso di me con la sicurezza di una donna, avevi solo 21 anni. Il capo leggermente in avanti, i capelli fluenti e luccicanti al sole e la frangetta. Ancora lontana avevo riconosciuto i tratti della bambina che da piccolo, mentre mi perdevo ad immaginarla giocare e felice, desideravo m’avrebbe sposato un giorno. Tenevi, lo ricordo bene, una giacchetta chiara e leggera sull’avambraccio sinistro, ordinata, camminavi nei tuoi jeans chiari, elegante e leggera sulle tue scarpette da ginnastica di pelle bianca. Ti ero venuto incontro col cuore tanto aperto che non poteva più svolgere funzione e agitavo la mano libera nella tua direzione per farmi notare da lontano, come per darti il tempo di vedermi, per prepararti. Intanto, un uomo che aveva occupato la distanza tra te e me mi aveva guardato un attimo perplesso, come se avesse bisogno di comprendere meglio cosa stessi facendo; aveva indugiato un attimo sulla mia mano, poi sui fiori, poi mi aveva fissato negli occhi ed infine si era fatto una grassa risata sotto i baffi togliendosi dalla nostra rotta e andando per i fatti suoi. Tu eri già così vicina che tutto si chetò. I suoni mischiati avevano lasciato lo spazio ad una pace che sentivo essere la mia desiderata. Da allora è così: sei la mia pace.
Guardandomi intorno, vedo nella camera il mobile bar con la ribaltina aperta, ci sono lettere, cartoline e fogli. M’alzo e risistemo bollette, fatture, chiavi e qualche tua collana. Mi viene voglia di scriverti. Prendo un foglio, non lo trovo, una busta basta. Fogli bianchi, rossi, gialli, verdi… quanto sei bella quando crei e colori le vite degli altri con biglietti, segnaposti, origami… Ho voglia di scriverti quello che sento. Cerco, ma non trovo niente in soggiorno e neanche nel corridoio. Decido di uscire, andare in centro, cercare in una cartoleria, qualcosa che mi piaccia, ma che cosa? Sull’uscio del terrazzino prendo la spazzatura; poco più in là ci sono le ortensie che tua mamma ha radicato dalle sue. Hanno già le foglie grandi e verdi, d’un colore pieno e profondo, una carne robusta e morbida. Per i fiori a pallone è ancora presto, ma più in là ci saranno anche il gelsomino, l’azalea, e il bambù crescerà un sacco quest’anno. Non devo più uscire, voglio rimanere in casa nostra.
Mi chiami e sei arrabbiata, non tutto va come vorresti sul cantiere, gli imprevisti ti fanno penare, mi racconti di tante cose con così tanta lucidità che mi sembra d’essere lì con te. Installazioni, travature, corten… mi mostri il tuo mondo, me lo racconti e descrivi mentre mi sento così affascinato dal tuo lavoro che ascolto partecipando quasi sempre senza utilità, ma con infinito trasporto. Mi piace tanto ascoltarti e vederti felice quando realizzi cose difficili o risolvi conflitti, problemi, superi difficoltà per me impossibili. Mi piace tanto quello che fai e come lo fai; per questo ho combinato tanti pasticci e mi sono trasferito io a Milano. Sei proprio brava, ed io mi sento tanto orgoglioso, sai, di stare con te e per questo ti ringrazio. Poi mi dici che rientri non prima di cena, mi mandi un bacio ed io chiudo gli occhi un attimo e mi sento nutrito.
L’orologio batte già il mezzo dì e dal giardino sento i merli, i pettirossi e i cardellini cantare mentre un gatto li guarda sul primo ramo dell’acero lì fuori. Sul divano sfoglio le foto nel cellulare: ci sei tu e un po’ anch’io. Le cartelle arrivano fino a quattro anni fa, tu non sei cambiata per nulla, io sono un po’ ingrassato ed ho perso qualche capello. Lo noto soprattutto nelle foto al sole, mentre mi baci in spiaggia delle Due Sorelle. C’è un sacco di gente come noi: chi gioca a pallone, chi alza un aquilone; il mare respira con le onde e s’appoggia sulla battigia, niente è perfetto e io sono felice. In acqua mi catturi col telefono mentre esco dal bagno: sarà presto un ricordo di questa mia età felice. Mi piace pensare, rivedere la nostra vita insieme e la vivo e rivivo con lo stesso sorriso. Poi di foto ce ne sono molte altre: in montagna, tu nascosta tra fiori gialli dell’Alto Adige, mentre manovri l’aquilone del Kite alle spiagge bianche, mentre costruisci gli addobbi per l’albero di Natale. Quante cose facciamo insieme, tutte meravigliose e tutte piene.
La casa è proprio la nostra: moderna come la volevi tu. Grandi vetrate, non troppo piena, a me piace moltissimo. Dice molto di noi e dei nostri piccoli viaggi per l’Italia, come il grande piatto di ceramica decorata al centro del tavolo del soggiorno che abbiamo preso a Napoli, o la gigantografia delle campagne Toscane che ami tanto, o i ritratti di alcuni miei nonni e il tasso che mi accompagna nelle mie peregrinazioni sin da bambino. Non tutto è di pregio, ci sono mobili che abbiamo preso all’IKEA, altri comprati dai rigattieri, come quello scrittoio laggiù che, dopo chissà quanti viaggi e magari padroni, ha finalmente trovato pace nell’angolo, in fondo al soggiorno.
Mi ricordo quando mia madre mi promise di lasciarmi l’appartamento dove abitavo allora. Stavamo da poco insieme quando decisi di venderlo, e sapevo che il valore poteva aggirarsi, allora, intorno ai trecentomila euro; con quella cifra immaginavo di poter acquistare un terreno edificabile dove avresti potuto pensare la nostra casa. Immaginavo che avresti fatto un progetto meraviglioso, che noi ed i bambini saremmo cresciuti felici e che avrebbero trovato lì, per sempre, il porto sicuro in cui tornare. Com’ero felice al sol immaginarlo. Di tutta la casa, la parte che mi piace di più sono le scale che portano al secondo piano, dove ci sono le camere da letto, perché c’è la gigantografia di noi quattro sorridenti. L’idea ci venne quando eri ancora stagista, prima del tuo esame di stato, quando andasti in quel loft sui Navigli per un sopralluogo finale con la tua titolare di allora. Mi chiamasti e mi raccontasti di questa foto gigante della famiglia committente: mi sembrò meravigliosa. Noi l’abbiamo realizzata molti anni dopo: è unica ed io l’adoro. L’ho voluta lì perché si vede appena entri, da ogni parte del piano terra, anche da qui, steso sul divano.
Le ore nel frattempo passano in fretta e a richiamarmi al mondo è lo stomaco che brontola; mangerò un gelato, alle tre del pomeriggio ormai il pranzo non mi interessa più, e poi m’è venuto in mente che devo passare in tintoria a ritirare i piumini invernali. Ci vado a piedi, non è molto distante e ho voglia di fare una passeggiata. Mi vesto casual, con la polo verde che mi hai regalato per il mio compleanno il mese scorso:
«Così ti risaltano gli occhi e sei più bello.»
Che donna sei, la mia donna: fai sempre tanto per il mio bene. Uscendo dalla tintoria mi arriva un messaggio, sei tu che mi chiedi se sono già passato a prendere i piumini. Mi piace, sai, quest’attenzione che hai nel ricordarmelo. Ti rispondo in un selfie con i borsoni in mano:
«Sì, Amore.»
Prima di te pensavo che chiamare la donna che si ama “Amore” fosse banale, perché lo facevano tutti. Mi pareva che volesse dire condividere con gli altri la propria ragazza, anche i propri lati più nascosti che si mostrano solo a lei. Per questo le poche fidanzate che ho avuto prima di te le ho sempre chiamate con dei nomignoli diversi e spiegavo loro la mia teoria, e così sono stato passerotto, leoncino e orsetto. Ora sono Amore.
Con te m’è venuto spontaneo la prima volta che abbiamo fatto l’amore. Era così dolce, caldo… Lì, tra le tue gambe, stretto al tuo corpo, sentivo il calore e l’eccitazione dei fluidi, e non smettevo di darti e ricevere baci. Sentii che per te poteva esserci un solo nome: Amore.
Non sei “il mio Amore”, sei Amore. La differenza per me è importante, non ti ho mai voluta, desiderata, né sentita mia, perché tra te e me c’è di mezzo la libertà di due soggetti, intelligenti e sensibili, che non scelgono di stare insieme, ma sentono il proprio bisogno dell’altro: la tua felicità mi dà sicurezza, la tua libertà pace, la tua tranquillità serenità…
Sono qui a casa, ti sto aspettando. Che voglia ho di ascoltarti, guardarti, toccarti, baciarti.
Potrei preparare qualcosa: un aperitivo, un primo, un secondo, un dolce… non so fare tutto e quel poco non molto bene, di certo non paragonabile neppure all’entrée di sardine e lardo del grand Hotel di Rapallo dove festeggiammo la tua assunzione a tempo indeterminato; la cena poi… un sogno.
Sono le quattro, guardo nel frigo e non c’è vino, così penso: «Mi sbrigo!»
Prendo il taccuino, guardo in giardino e trovo il rosmarino: «Carne!»
Così mi vesto: «Devo far presto!»
Vino e liquori servono ai cuori.
Dolci e diamanti sono come gli amanti: «Unici»
Prendo le chiavi e sgommando parto cantando.
Che pomeriggio, pensavo fosse tranquillo invece s’è accelerato in modo inaspettato.
Esco con l’intenzione di comprare un buon vino, così prendo Puffetta, la macchina blu, perché oggi hai voluto andare con Psyche al cantiere, la macchina bianca. Mi piace tanto questa cosa: non c’è un confine tra te e me nella proprietà delle cose. Questa mattina per esempio mi hai chiesto:
«Ti spiace se prendo Psyche?»
Ribadisco, mi piace questo modo di fare educato che ci appartiene e ho sempre trovato naturale.
Con Puffetta sfreccio a finestrini bassi per le strade cantando le canzoni dei cartoni animati di una vecchia cassetta trovata nella portiera: Memole, Lady Oscar, Pinocchio… mi piace proprio, mi rigenero e, leggero come un fringuello a primavera, parcheggio proprio davanti alla vetrina della pasticceria che ti piace tanto, la Tortallegra. Ordino il tiramisù che dopo qualche ora tornerò a prendere fresco e pago, scambio due chiacchiere con Tilly che mi chiede se sia per una festa speciale, le rispondo di sì, con un sorriso eloquente; poi mi racconta di Matteo, suo figlio, che vorrebbe iscriversi ad un corso di karate.
Puffetta ed io ripartiamo, direzione il macellaio. Poi, fermi al semaforo di Piazzale Medaglie d’Oro, vedo il pescivendolo che ha cambiato l’insegna. Mi viene voglia di entrarci; mi piace sempre il banco ittico, mi emozionano tanto i pescioni e soprattutto gli spada e le ricciole perché li penso sfrecciare sicuri ed eleganti e far poi alti balzi fuori dall’acqua. L’uomo in bianco e guanti blu m’insegna una ricetta nuova con i totani, i moscardini e le seppioline che ti piacciono tanto. Scopro che si tratta un pescatore, ma un professionista e non un dilettante come me; ci scambiamo esperienze di catture impari, lui carpe, lucci, tinche e siluri di pezzature incredibili con tanto di documenti fotografici a portata di cellulare, io alborelle, scardole e carassi, poco nobili e saporiti.
Dalle quattro alle sei è un attimo, ho ancora il vino da prendere e così mi infilo in un’enoteca sconosciuta e mi faccio consigliare per un bianco con le bollicine che a noi piace tanto.
Insomma, tutte queste commissioni mi teletrasportano alle sette e, temendo che torni prima di me, premo sull’acceleratore e mi parcheggio a casa in un attimo.
Quando torni ci salutiamo con due grida:
«Ciao! Baci Amore!»
«Ciao! Baci Amore!»
Quando salgo sei già nella doccia ed io sono tornato ai miei affari in cucina. Pochi minuti dopo, facendo la camminata dello zombie, arrivi anche tu e m’abbracci da dietro, mi baci il collo e t’accoccoli come una panda alla sua mamma. Ti tengo a me, mi piace sentirti addosso, mi parli bofonchiando contro la schiena delle cose incomprensibili, mi giro e ti bacio. Solo allora ti accorgi che ho il grembiulino e il cappello da chef e capisci subito tutto.
«È quasi pronto.»
Ti trascino in sala, fino al divano.
Quando ho impiattato usciamo in giardino. Nell’angolo delle ortensie ho messo il tavolino e le sedie da picnic con una elegante tovaglia, i bicchieri e i piatti decorati, i tovaglioli e al centro le violette. Ti accomodo come si conviene da cavaliere: accompagnandoti la sedia. T’accarezzo il viso e bacio mentre socchiudi gli occhi. Sorseggiando l’aperitivo mi racconti meglio la tua giornata e nell’atmosfera ormai ambrata dai lampioni vedo le candele sbrilluccicare nei tuoi occhi. Sono felice.
Ti prendo la mano e tu mi dici:
«Mi spiace averti lasciato solo oggi.»
Ed io:
«Non ero solo, solo ti aspettavo.»
E sono felice.
Questo racconto è tratto dal libro “Amore, niente è perfetto e sono felice” di Richard Eugen Unterrichter
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