Lo straniero – Albert Camus

Di Washoe

Albert Camus era francese; su questo, non ci sono dubbi. Per lingua, cultura, nazionalità, sangue (anche se soltanto da parte di padre: la madre aveva origini spagnole). Eppure, egli nacque e crebbe ben lontano dalla Francia europea, in Algeria, all’epoca colonia di Parigi. Apparteneva ai così detti Pieds-noirs, il gruppo dei coloni europei in terra d’Africa e dei loro discendenti; e questa sua stretta relazione con il Continente Nero, essendo parte importante del suo bagaglio personale, non può essere ignorata nel momento in cui ci si approccia alla sua produzione letteraria. Se non altro, conoscendo questo dettaglio importante si può comprendere meglio perché l’ambientazione delle sue opere sia spesso e volentieri costituita dall’Africa coloniale, quel mondo che l’ha visto crescere e formarsi. È il caso, ad esempio, del primo dei suoi romanzi, dal titolo emblematico de “Lo straniero”. Emblematico perché straniero lo era Camus stesso, forestiero nella propria terra natale: l’idea del libro parte da lì, ma il significato del titolo si amplia nel tentativo di trasformare i Pieds-noirs in emblema della condizione umana in generale.

La trama

Protagonista del racconto è Meursault, un apatico impiegatuccio francese che vive ad Algeri. Gli eventi raccontati nel romanzo, che viene narrato in prima persona dal protagonista stesso, sono in realtà molto pochi. La storia si apre con la morte della madre di Meursault e il conseguente funerale, e si sposta poi sulle superficiali relazioni del protagonista, da quella pseudo-amorosa con Marie al rapporto d’amicizia con un tale Raymond Synthès; proprio le vicissitudini di quest’ultimo, in cui Meursault resta in qualche modo immischiato, lo conducono senza motivazioni chiare ad uccidere con un colpo di pistola un arabo con cui l’amico aveva avuto da ridire, e ad infierire sull’uomo ormai morto con una serie di pallottole sparate a qualche secondo di distanza dalla prima. Meursault viene arrestato per omicidio e sottoposto ad un processo che si rivela essere rivolto alla persona e non al crimine commesso, e che si risolve, dopo una serie di arringhe surreali, in un’inevitabile condanna a morte.

L’arabo ucciso nel film “Lo straniero” (1967) di Luchino Visconti

L’ignavia di Meursault

Meursault, il protagonista, è un uomo fondamentalmente sgradevole, quasi disgustoso per certi versi, e la motivazione la si trova presto nel suo modo di pensare, di trattare le altre persone, di agire. Tuttavia, non è un’antipatia legata esclusivamente alla persona e alle sue azioni. La repulsione che il lettore inevitabilmente sente verso di lui è forse correlata ad un sentimento antico, distaccato dalle caratteristiche specifiche del personaggio: Meursault è un ignavo, appartiene cioè a quella schiera che Dante non ritiene degna neppure dell’Inferno e che l’umanità da sempre disprezza. Egli guarda la vita scorrere fuori dalla finestra senza sentire il benché minimo desiderio di farne parte, di migliorare se stesso o la realtà attorno, di avere uno scopo personale o di aiutare gli altri, o di prendere una qualsiasi posizione. Si dimostra incapace di provare affetto per chiunque, persino per la madre, e causa in chi gli sta attorno una sofferenza di cui però non gli importa nulla.

L’atteggiamento verso il lettore

Ma non è soltanto l’apatia a renderlo odioso: anche l’atteggiamento che ha nei confronti del lettore lascia interdetti e, a dire il vero, persino un po’ innervositi. Normalmente un narratore in prima persona, specie se condannato dalla società attorno a sé, cerca sempre di “vendersi” quando racconta la propria storia, di giustificarsi, di dimostrare che la colpa non è soltanto sua, che qualunque essere umano si sarebbe comportato alla stessa maniera. Lui no, e questo è sorprendente: non gli importa minimamente ciò che i lettori pensano di lui, e in un certo senso sembra sfidarli, invitarli ad odiarlo. E si può dire che riesca nel suo intento, anche se non fino in fondo: sul finale si riaccende un po’ di commiserazione per Meursault, quando lo si scopre rassegnato di fronte alla morte e per la prima volta consapevole della propria solitudine.

Marcello Mastroianni è Meursault nel film di Visconti

L’insensibilità del protagonista e di altri personaggi

Conseguenza diretta di questo suo non farsi coinvolgere da niente e da nessuno, nemmeno dagli eventi che gli accadono (di cui è spettatore anche quando è attore), è una totale incapacità di esprimere giudizi. Questa, che potrebbe essere una caratteristica positiva, nel suo caso diventa al contrario un difetto enorme, perché causata non dalla tolleranza o dalla compassione ma da una sorta di pigrizia morale, dal non avere voglia di prendere una posizione. E questo, ad uno sguardo superficiale, contrasta molto con la maniera di porsi di alcune delle persone che incontra, insensibili ma in maniera diversa e opposta dalla sua: si tratta ad esempio del giudice e del cappellano, incapaci di accettare il suo ateismo, o del procuratore che fa i salti mortali pur di farlo condannare a morte. Eppure, in quale misura le insensibilità di questi personaggi e quella di Meursault sono diverse? Forse, soltanto nel fatto che l’atteggiamento del protagonista è quanto mai peculiare, mentre quello degli altri è comune a molti esseri umani, spesso impegnati a sputare sentenze e ad ergersi ad ambasciatori della divinità pur di arrogarsi il diritto di giudicare altri uomini. Entrambe sono spaventose, entrambe possono avere conseguenze terribili; dove stia l’equilibrio tra le due non è detto dal romanzo, il cui intento è soltanto quello di suscitare domande.

L’isolamento di Meursault

Anche dopo la condanna a morte, anche dopo un giudizio tanto severo, Meursault non cambia il proprio modo di essere e continua a vivere in una bolla, che si manifesta ora nell’immagine concreta di una cella, da cui non nutre alcun desiderio di uscire. A lui l’isolamento piace, sebbene la sua non sia una scelta di vita, una precisa disposizione filosofica, ma una condizione generatasi dall’inerzia e dalle situazioni in cui, suo malgrado, si è trovato invischiato. Egli si sente straniero, non soltanto nella sua terra, in mezzo a gente diversa da lui (gli arabi, per intenderci, che non parlano mai nel romanzo, come fossero ectoplasmi appartenenti ad un diverso piano di realtà), ma rispetto alla condizione umana, impotente com’è di fronte all’irrazionalità che la pervade. La sua reazione al caos dell’esistenza è sempre stata quella di appartarsi, di lasciarsi stupidamente colpire da tutto senza sviluppare uno straccio di emozione, e questo lo porta addirittura ad uccidere senza sapere bene perché, come mosso da un burattinaio invisibile. Ma, nota bene, il suo non è un atteggiamento fatalista. Chi crede nel Destino, infatti, si pone domande e prova a darsi delle risposte, confidando in un’entità sovrannaturale che ha sempre ragione. Per lui non è così: ciò che gli accade semplicemente gli capita, e basta. Non crede che ci sia un perché e non si pone domande che metterebbero in pericolo le sue abitudini, l’unica sua certezza. In poche parole, la vita e le grandi questioni non gli interessano.

Edvard Munch – Sera sul viale Karl Johan (1892)

L’assurdità dell’esistenza

Meursault si trova ad essere messo di fronte all’assurdità della condizione umana e non riesce ad affrontarla. Alla scoperta di come l’uomo, nonostante la smisurata fiducia che ha riposto nella scienza e nella tecnica, non riesca davvero a prendere il controllo della propria vita, la sua risposta è una negazione totale, un rinchiudersi nel guscio come una chiocciola spaventata. Il risultato è una vita senza scopo, che tuttavia non è per forza più vuota di quella di chi, al contrario, ripone totale fiducia nella ragione, nelle scoperte scientifiche, nel progresso e nelle scelte personali, con l’illusione di poter decidere la rotta della propria esistenza. Rispetto a loro, però, si può dire che Meursault abbia già fatto un passo avanti, riconoscendo l’insensatezza sostanziale dell’esistenza e sgomberando il campo da tutte le bugie rassicuranti dell’epoca moderna.

La scoperta finale

Solo al tramonto della propria vita, tuttavia, ha forse capito quale sia la soluzione, quando ormai è diventato troppo tardi per poterla mettere in atto. L’unico riempitivo possibile per la vacuità della vita umana è il contatto profondo con l’altro, come quello che c’era stato tra la madre e il nuovo compagno nella casa di riposo, come quello che c’è tra due bambini che pur non conoscendosi cominciano a giocare insieme sulla spiaggia; un contatto disinteressato, sincero, solidale. Ma per Meursault chiuso in prigione è ormai impossibile trovare una connessione, se non nell’odio della folla al momento della sua esecuzione. Una triste, triste soluzione. Eppure quello, mentre gli volano addosso gli improperi degli arabi infuriati per l’uccisione di uno di loro, è l’unico istante della vita di Meursault in cui si senta un po’ meno solo, un po’ meno abbandonato, un po’ meno… straniero.

Albert Camus (fonte: Cultora)

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