Le conseguenze dell’amore (2004) – di P. Sorrentino, con T. Servillo

Attenzione: chi odia la noia stia lontano da Le conseguenze dell’amore (2004). Non perché si tratti di un film noioso (sebbene un non-cinefilo potrebbe comprensibilmente considerarlo tale), ma perché la noia vi svolge un ruolo centrale, specie nella prima parte, per la creazione dell’atmosfera e delle giuste premesse alla storia. Si tratta di un film, questo (scritto e diretto da Paolo Sorrentino), che si “riempie del nulla”, e gode della prestazione di un Toni Servillo come sempre perfetto.

Il misterioso Di Girolamo

Toni Servillo interpreta il misterioso Titta Di Girolamo, uomo che da otto anni vive in albergo in un innominato paese della Svizzera italiana. Nessuno sa di che cosa si occupi, nessuno sa perché si trovi lì: la vita dell’uomo è ricoperta da un alone di mistero e la sua routine vuota di attività e di ogni contatto umano non contribuisce certo a dare delle spiegazioni. Di Girolamo soffre di una profonda solitudine e di una tendenza all’apparenza patologica a rifiutare la compagnia di altre persone, e sembra incapace di provare qualsiasi tipo di emozione. L’idea che dà di sé fin dalle prime battute è quella di un sonnambulo che vive da addormentato, insensibile agli stimoli del mondo esterno; se questo sia causato dall’insonnia di cui soffre o ne sia piuttosto la causa non è chiaro. Se ogni emozione, ogni passione, ogni umanità è assopita durante il giorno, come pretende Di Girolamo di prendere sonno la notte? E se non prende sonno la notte, come può pensare di vivere le giornate in pieno possesso delle proprie facoltà?

Gioco di silenzi

La sensazione è che qualcosa si nasconda dietro alla facciata glaciale di Titta Di Girolamo, eppure Sorrentino lo tiene segreto per tutta la prima parte. Con questo gioco di silenzi, suoi e del protagonista, (vittima di una profonda incomunicabilità, che lo costringe a parlare per frasi fatte e con uno sforzo non indifferente), si crea curiosità, e persino la profonda abitudinarietà del personaggio si trasforma una fonte importante di suspense. Eppure, a mano a mano che il tempo passa, si ha sempre più la sensazione che l’indifferenza dimostrata da Di Girolamo per ogni cosa, anche per la bella cameriera a cui nega brutalmente il saluto, sia qualcosa di congenito e non causato da fattori esterni e misteriosi: il chiudersi in un’esistenza vana e senza alcun tipo di profondità appare essere la vera essenza della sua persona.

Toni Servillo nei panni di Titta Di Girolamo

L’ingresso in scena dell’eroina

Proprio quando quest’idea sembra essere diventata una certezza, arriva il primo colpo di teatro a metterla in crisi. Parlando con il direttore dell’albergo, Di Girolamo asserisce che: «Ogni essere umano ha il suo segreto inconfessabile.» Ed ecco che presto scopriamo quello che pare essere il suo “segreto inconfessabile”: la dipendenza dall’eroina. Ogni mercoledì mattina, alle dieci in punto, Titta Di Girolamo si inietta l’eroina, senza mancare mai e senza mai variare la dose, per poi farsi ripulire il sangue una volta all’anno in una clinica. La droga irrompe all’improvviso nella narrazione, non annunciata, e sconvolge tutto, a partire dalla colonna sonora che cambia all’improvviso e diventa più energica; ma è un’illusione momentanea, perché presto l’effetto svanisce e tutto torna come prima. L’eroina dà una botta soltanto momentanea, nel film come nella vita del personaggio: è una mera parentesi di felicità apparente nella gabbia di noia e di nulla in cui Di Girolamo è rinchiuso. E, fondamentalmente, è un’abitudine anch’essa, parte di una noiosa routine espletata ogni mercoledì mattina alle dieci.

Il lavoro di Di Girolamo

Eppure l’eroina è il segnale che evidenzia come sotto alla crosta di indifferenza ci sia qualcosa di inaspettato. Lentamente, a partire da quel momento il passato di Di Girolamo comincia ad essere rivelato. Prima si scopre quale sia la sua attività attuale: quella di consegnare settimanalmente una valigetta piena di banconote, del valore di milioni di dollari, ad una banca locale; e poi viene rivelato il suo passato di commercialista, capace di spostare miliardi di lire e gestire gli investimenti di grandi imprese. Una di quelle “grandi imprese” è però Cosa Nostra: amministrando alcuni dei loro flussi di denaro, una decina d’anni prima Di Girolamo aveva perso più di duecento miliardi di lire. Era riuscito a convincere i boss di non essersi intascato nulla e di aver semplicemente commesso un errore; per questo aveva avuto salva la vita, ma era stato spedito nell’albergo in Svizzera in una sorta di confino, a fare da prestanome presso una delle banche del paese.

Una vita negata

Con quella sorta di trasferimento forzato, Titta Di Girolamo aveva perso la famiglia, gli amici, tutto quanto, persino la propria umanità. Gli era stato negato dalla mafia ogni contatto con l’altro, ogni passione, ogni divertimento; era stato costretto alla solitudine in una specie di prigione fisica ma anche emozionale. Gli era stato negato dalla mafia, ma anche da se stesso, perché accettando che gli rubassero la vita si era condannato da solo ad un’esistenza fatta di nulla, e che tanto dissimile alla morte non lo era di certo. Di Girolamo non era dunque sempre stato così come lo si vede nel film, ma era stato l’intervento di forze esterne ad indurlo ad alienarsi dal mondo e ad erigere attorno a sé un muro di indifferenza, la sua arma difensiva contro la nostalgia e quei desideri che non potrà mai più soddisfare. 

Non sottovalutare le conseguenze dell’amore

Per mantenere in piedi il muro Di Girolamo ha bisogno, a volte, di un promemoria, come quello che scrive sul proprio taccuino: “Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore”. Eppure, la frase diventa una sorta di spioncino che permette di guardare al di là della parete: all’improvviso scorrono le immagini della moglie, della nascita di uno dei figli, e della bella cameriera Sofia, di cui si era segretamente invaghito. Titta dimostra di provare delle emozioni, ma di essere costantemente impegnato a metterle a dormire. Non ci riesce del tutto, e la sua volontà comincia a vacillare dopo la visita del fratello, l’unico dei familiari che ancora si ricorda di lui, il quale ha il merito di riportargli alla mente il ricordo del suo migliore amico, Dino Giuffrè, che non vede da vent’anni. Al sentirne il nome si vede per la prima volta uno sprazzo di emozione sul volto di Di Girolamo; il tempo passato senza vedere l’amico appare contare poco per lui, anche perché quei dieci anni passati in Svizzera sono stati talmente vuoti che è come se non fossero mai esistiti.

L’avvicinamento a Sofia e la svolta finale

Il calore umano del fratello gli permette di ricordare la bellezza del contatto con gli altri e le cose cominciano a cambiare: si siede finalmente al bancone del bar dell’albergo a parlare con Sofia, con un gesto che dice essere «la cosa più pericolosa» che abbia fatto in tutta la sua vita, e dà il via ad una nuova fase della sua esistenza. La scena del lavaggio del sangue in clinica, con quel rettangolo di luce che si staglia al centro di una muraglia di oscurità, va in questo senso, e rappresenta il suo passaggio verso un altro modo di pensare, verso la rimozione dalle ragnatele che aveva lasciato formarsi nelle vene della sua componente passionale. Per la prima volta sgarra e consuma l’eroina al di fuori dell’orario stabilito, per poi aprirsi con Sofia e raccontarle la propria storia, persino i lati più oscuri. Si tratta di un passo enorme, e per questo quando la ragazza non si presenta al successivo appuntamento Titta rimane profondamente deluso. Ciò che non sa è che a trattenere Sofia è stato un incidente d’auto; eppure si convince di non essere mai stato amato da nessuno, e arriva a desiderare quella morte rocambolesca che aveva sempre definito un atto di “grande coraggio”. Così, quando viene derubato della valigia che avrebbe dovuto depositare in banca, con insospettabili doti da uomo d’azione la recupera e poi si rifiuta di restituirla alla mafia, accettando in questo modo di morire e di terminare la propria decennale agonia.  

La morte di Di Girolamo

La scena iniziale del fattorino sul tappeto mobile può essere a questo punto della storia riletta come un simbolo, messo lì da Sorrentino a rappresentare Di Girolamo che si lascia trascinare dagli eventi fino quasi al finale, quando all’improvviso, risvegliato da un forte rumore, decide finalmente di tornare padrone di decidere la propria strada. Dopo aver affrontato una sorta di processo di fronte alle “autorità” mafiose viene annegato nel cemento; nella scena conclusiva del film, mentre viene lentamente calato nella vasca in cui troverà la morte, ci viene finalmente concesso di toccare con mano quel suo mondo sommerso di sentimenti ed emozioni umane che il regista aveva tenuto invisibile per tutto il film. E l’ultimo suo pensiero va incredibilmente a Dino Giuffrè, quel migliore amico che non vedeva da vent’anni, forse l’unica persona da cui abbia mai ricevuto affetto sincero.

«Una cosa sola è certa, io lo so. Ogni tanto, in cima a un palo della luce, in mezzo a una distesa di neve, contro un vento gelido e tagliente, Dino Giuffré si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare. E pensa che io, Titta Di Girolamo, sono il suo migliore amico.»

Il finale di “Le conseguenze dell’amore”

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