L’autunno del patriarca – Gabriel García Márquez

L'autunno del patriarca Aquile Solitarie

Di Washoe

Uscito dopo il successo planetario di Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca (1975) è l’opera senza dubbio più sperimentale di Gabriel García Márquez. Un romanzo che, con i suoi periodi interminabili, le sue immagini ricorrenti, la sua aggettivazione audace, ha richiesto anni e anni di gestazione, e che a detta del suo stesso autore è il vero capolavoro del Premio Nobel colombiano.

«Mi sembra perfettamente naturale che un romanzo con le esigenze culturali de L’autunno del patriarca presenti una difficoltà molto maggiore di Cent’anni di solitudine. […] Ora, che L’autunno del patriarca arrivi ad essere un libro comprensibile al pubblico credo sia un punto a cui si arriverà, prima o poi. Per questo, come lavoro letterario L’autunno del patriarca mi interessa molto di più di Cent’anni di solitudine e molto di più di qualsiasi altro mio libro. E sono assolutamente sicuro che se in un futuro molto lontano si parlerà di me sarà per L’autunno del patriarca. Tutte quelle difficoltà che esistono oggi spariranno facilmente e il libro si leggerà con una naturalezza assoluta.»

Gabriel García Márquez intervistato da Germán Castro Caycedo per RTI TV, 1976.

La difficoltà e la bellezza de L’autunno del patriarca

Ma perché L’autunno del patriarca risulta così difficile? La risposta più immediata è: per via dello stile, assolutamente anticonvenzionale. I periodi sono così lunghi che sembrano avere un inizio e non una fine, tanto che a tratti occorre svoltare diverse pagine per incontrare un punto; in compenso sono tempestati di virgole, costituiti da un accavallarsi continuo di subordinate che ingarbugliano il discorso, costruiti come un edifico di diversi piani. L’aggettivazione è del tutto imprevedibile, caotica quasi, fatta d’iperboli e accostamenti al limite dell’impossibile. Come se non bastasse, all’interno degli stessi periodi ci sono a volte salti temporali di decine di anni, salti improvvisi nello spazio, cambi repentini di punto di vista, senza alcun preavviso né distinzione né spesso segni di interpunzione. Insomma, la lettura de L’autunno del patriarca è tutto fuorché leggera. Qual è allora il punto di immergersi un’opera di questo genere? Semplice: L’autunno del patriarca è un lampo improvviso di bellezza: è un romanzo unico, che sembra scritto in una sorta di slancio mistico, che offre nuove vie di espressione, e soprattutto che è dotato di una prosa poetica capace di dipingere con il suo incanto immagini suggestive e mai viste.

La verità e la menzogna

Fondamentalmente, L’autunno del patriarca narra la storia di un dittatore di un paese caraibico non ben definito (avvicinabile però alla Colombia), rimasto al potere per un numero incerto, quasi biblico, di anni. C’è fin dal principio una nebbia di fondo sui confini dello spazio e del tempo della narrazione, cosa che si riflette inevitabilmente sui fatti raccontati, portando il lettore a barcamenarsi in tutta una serie di accadimenti, immagini, sensazioni in cui non può distinguere la verità dall’invenzione e dalla bugia. Questo perché non solo non si riesce a capire quando i pensieri e le frasi dei vari personaggi siano sinceri, ma neppure tra i pensieri, le azioni e le frasi del dittatore protagonista è possibile discernere il vero dal falso, il fatto dalla propaganda: il patriarca stesso non riesce più a separare la realtà dalle sue stesse menzogne, troppo abituato a plasmare i fatti e la storia attraverso il proprio potere e a sentirsi dire dai suoi collaboratori solamente ciò che vuole che gli dicano.

Rafael Trujillo
Il dominicano Rafael Trujillo, uno dei moltissimi dittatori caraibici (fonte: thoughtco)

Il tempo rimescolato de L’autunno del patriarca

E l’effetto più devastante di questa fallacia congenita del libro è quello di rimescolare persino il tempo, fino a renderlo un pasticcio di epoche lontane tra loro che si sfiorano e si sovrappongono, e di confondere e di spostare i momenti della giornata. Non solo infatti il generale pretende di comandare il tempo e far slittare le ore del giorno, venendo assecondato dai suoi adulatori che gli danno l’illusione di questo potere soprannaturale, ma confonde i momenti della propria vita e li intreccia con avvenimenti che può aver testimoniato soltanto attraverso i libri di storia. E così, il patriarca si auto convince di aver assistito all’arrivo delle tre caravelle e allo sbarco di Colombo, o crede, in uno slancio anticlericale, di essere ancora al tempo dei Conquistadores. Ma quel che è più incredibile ancora è che si dimentica della propria età, si dimentica di esser nato, arrivando a credere di esistere dalla notte dei tempi di poter durare fino alla fine dell’eternità.

Tre caravelle
Una rappresentazione delle tre caravelle di Colombo (fonte: pinterest)

Il potere

Passando alla figura in sé del generale, ciò che lo caratterizza davvero, ancor più degli aggettivi che gli vengono attribuiti continuamente (vecchio insondabile, pachiderma, animale sgozzato, macho…)  è un’indicibile sete di potere. Fin dal suo arrivo nella capitale durante la cosiddetta guerra federale, l’unico suo pensiero fisso è quello di impossessarsi del potere e di non mollarlo più, e a poco a poco, dopo essere stato creato presidente con l’idea di farne una marionetta, si libera ad uno ad uno di tutti gli oppositori politici, fino a ritrovarsi capo assoluto del governo. Il potere diventa allora la sua ossessione, ancor di più dopo la morte di un sosia che gli faceva da doppione; l’evento lo trasporta in un delirio di onnipotenza, e lo porta a credere che possano morire tutti tranne lui. La compenetrazione del suo essere con il concetto di potere è tale che quando egli viene spogliato della sua autorità dall’inarrestabile Saenz de la Barra non fa altro che vagare nel suo grande palazzo senza alcuna meta: quando non può comandare, il generale è inutile e si sente tale, perché ormai tutta la sua essenza è stata riversata nel suo ruolo di capo assoluto della nazione.

Gli inganni ai danni del dittatore

Il potere assoluto ha però i suoi risvolti oscuri, e lentamente il generale si allontana a propria insaputa dal mondo esterno, a cui guarda con distacco attraverso i vetri della propria carrozza: quello che vede oltre il finestrino è una lusinga continua, e il patriarca finisce per credersi amato da tutti, soprattutto da quel popolo che lo acclama in ogni uscita pubblica. In realtà, però, le manifestazioni di amore non sono altro che il frutto delle azioni dei suoi adulatori, che corrompono la folla affinché esulti festante al suo passaggio, che pagano attori per fargli credere di aver compiuto veri miracoli, che lo convincono della serie di prodigi che avrebbe compiuto la salma della sua madre defunta. Non solo: la cerchia di burocrati e ministri che gli sta attorno arriva a creare giornali, televisioni, radio, paesaggi interi con il solo scopo di accontentarlo e di placarne le ansie, controllando così il paese alle sue spalle. Alla fine dei suoi anni, tuttavia, il generale si accorge di quanto fosse illusorio del potere che credeva di tenere in mano, e accetta la menzogna come male minore per permettergli di conservare l’unica cosa capace di renderlo vivo: il comando.

«Lui tornò a soffrire per un attimo la scintilla chiaroveggente che non era stato mai né mai sarebbe stato il padrone di tutto il suo potere, continuò, mortificato dalla beffa di quella certezza amara.»

«Aveva cercato di compensare quel destino infame col culto bruciante del vizio solitario del potere, si era fatto vittima della sua setta per immolarsi nelle fiamme di quell’olocausto infinito, si era pasciuto della fallacia del delitto, aveva progredito nelle empietà e nell’obbrobrio e aveva dominato la sua avarizia febbrile e il suo terrore congenito solo per poter conservare fino alla fine dei tempi la sua pallina di vetro nel pugno senza sapere che era un vizio senza fine la cui sazietà generava il suo stesso appetito fino alla fine di tutti i tempi signor generale.»

Fidel Castro Garcia Marquez
Garcia Marquez con il dittatore cubano Fidel Castro (fonte: qz)

La morte del generale, la distanza del popolo, la conclusione

In tutto il romanzo la morte del generale è l’elemento che fa da collante tra le sue parti, e non solo in quanto punto di partenza di ognuno dei sei capitoli. Il racconto della sua dipartita si ripete infatti spesso, come spesso si ripete il rito della chiusura dei tre paletti, tre chiavacci, tre chiavistelli, la narrazione cioè della cerimonia e della posizione dei suoi sonni che poi sono anche la cerimonia e la posizione della sua morte, come se ogni notte fosse morto e ogni mattina miracolosamente resuscitato. Il trapasso del dittatore è centrale per la comprensione dell’opera perché è proprio in occasione del ritrovamento del suo cadavere che si palesa tutta la distanza del potere dal popolo, resa manifesta dall’incapacità di tutti di identificare con certezza il cadavere come quello del dittatore. E su questa distanza, evidenziata già dal principio, si basa la conclusione, nella quale García Márquez interviene per la prima ed ultima volta nel libro e afferma con forza come il dittatore non abbia in realtà mai vissuto, perché la vita vera è quella della povera gente, è quella vita che aveva osservato soltanto dal finestrino di un treno con i suoi occhi penosi, asserragliato nel suo castello di menzogne, è quella vita fatta d’amore sofferto, che è però l’unico amore che esista e da cui lui si è sempre tenuto lontano, perduto com’era nel suo interminabile delirio di onnipotenza.

L’interpretazione di García Márquez

Questa è l’interpretazione, si può dire, classica del romanzo, la quale si concentra inevitabilmente sul tema del potere e delle sue aberrazioni. Tuttavia, in un’intervista concessa nel 1976, García Márquez affermò come essa sia in realtà lontanissima dall’essere esatta, o perlomeno dall’essere la più immediata. Per il suo autore, infatti, L’autunno del patriarca non è la storia di un dittatore, ma è la trasposizione simbolica della vita stessa dello scrittore.

«Perché la grande trappola in cui possono cadere non solo i critici ma anche i lettori è credere che L’autunno del patriarca sia davvero il romanzo di un dittatore. Se qualcuno ha la curiosità di leggerlo con un’altra chiave, cioè anziché pensare a un dittatore pensare ad uno scrittore famoso, probabilmente il libro risulta molto più comprensibile.»

C’è un episodio in particolare su cui si sono arrovellati i critici nel tentativo di dargli una spiegazione, tentativo che García Márquez considera pretenzioso e inutile: l’episodio del dittatore che vende il mare agli stranieri (letteralmente: i gringos arrivano, lo fanno a fette e se lo portano via). Alcuni vi hanno visto il racconto della conquista spagnola, altri una feroce critica all’imperialismo americano; per l’autore, tuttavia, l’interpretazione è molto più semplice: il generale che vende il mare e che si ritrova perduto per la mancanza del mare non è che l’alter ego del giovane García Márquez, che dopo essersi volontariamente trasferito per studiare nella fredda Bogotà, nel suo altipiano triste e cenerino, si accorge di avere un insostenibile bisogno dell’oceano della sua infanzia, e tuttavia sente ormai di non poterci fare nulla, e si ritrova obbligato a sguazzare nel fango del proprio pentimento. Alla luce di questo, dunque, l’opera intera può essere riletta come la narrazione della vita dell’autore stesso, come la trascrizione delle sue memorie, tanto più efficace quanto più criptica e oscura.

Bogotà
Un’immagine di Bogotá (fonte: viaggionelmondo)

La multiformità de L’autunno del patriarca

Qualunque sia l’interpretazione che gli viene assegnata, però, è chiaro come la bellezza de L’autunno del patriarca stia anche in questa sua natura incerta, nei suoi numerosissimi livelli di lettura, nei suoi significati nascosti, nelle infinite forme che riesce ad assumere agli occhi di ogni nuovo lettore e persino ad ogni nuova rilettura. Ed è proprio questo ciò che rende l’opera estremamente preziosa, perché capace di rinnovarsi ed assumere una nuova ricchezza ogni volta che viene presa in mano, nonostante le difficoltà presentate da uno stile che si può definire avanguardista. Probabilmente, dunque, García Márquez ci aveva visto lungo: questo è il suo vero capolavoro, il suo personalissimo lasciapassare verso l’eternità.

Gabriel Garcia Marquez
Gabriel Garcia Marquez (fonte: tessere)

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