La luna e i falò – Cesare Pavese

Di Washoe

La luna e i falò, uscito soltanto pochi mesi prima della tragica morte del suo autore, è l’ultimo romanzo pubblicato in vita da Cesare Pavese. Si tratta di un testo fortemente intimista, in cui l’autore piemontese descrive il ritorno alla propria terra, tra le splendide colline delle Langhe, di un uomo emigrato in America molto tempo prima. La vicenda del protagonista appare però come un pretesto che Pavese usa per guardarsi indietro, per ritornare alle proprie radici ed indagare il legame che sente con quel mondo antico che l’ha visto nascere, crescere e diventare grande; ma anche per parlare di se stesso, che pur senza emigrare al di là dell’Oceano ha visto la propria vita cambiare dopo l’incontro con la grande letteratura statunitense.

Anguilla, il protagonista

Il protagonista, di cui non si conosce il nome ma che tutti chiamano con il soprannome di Anguilla, è un trovatello abbandonato da piccolo sulla porta del Duomo di Alba, che viene portato all’ospedale di Alessandria in attesa di essere adottato in cambio di una mesata. Con la prospettiva di fare qualche denaro extra e di avere in più un paio di braccia per la campagna Anguilla viene adottato da Padrino (così si fa chiamare dal piccolo trovatello), che lo porta in una cittadina mai nominata ma che è stata identificata con Santo Stefano Belbo. Nonostante non conosca davvero il proprio luogo natale, quello diventa per Anguilla il suo paese, ed è lì che ritorna molti anni dopo, in seguito a diverse peregrinazioni e ad un periodo vissuto negli Stati Uniti. Rivedendo i luoghi in cui è cresciuto ritrova gli stessi vigneti, gli stessi colori, gli stessi sapori, e inizia un viaggio retrospettivo in cui le cose e le percezioni sensoriali diventano la miccia che fa esplodere i ricordi. Attraverso di essi si accorge però che le persone no, non sono più le stesse, cambiate o portate via dallo scorrere del tempo, dalla povertà, dalla malattia, dalla guerra. Eppure, in alcune di esse crede di veder rivivere gli uomini e le donne del suo passato, come se la popolazione delle colline fosse anch’essa governata da un ciclo come lo sono la natura e le stagioni.

Valino e Cinto

In particolare, sono due le persone in cui rivede le caratteristiche di qualcuno di familiare, anzi, in cui rivede se stesso: si tratta di Valino e di Cinto, rispettivamente padre e figlio. Nel vecchio, corroso dalla povertà, reso violento dalla frustrazione e demolito psicofisicamente dall’avidità e dalla cattiveria della padrona della cascina in cui vive, Anguilla vede con orrore, o forse con un senso profondo di rassegnazione, che cosa sarebbe potuto diventare lui se non fosse partito a cercare fortuna in America: essendo figlio di nessuno non gli sarebbe potuto mai toccare nulla di meglio, perché nulla sarebbe mai stato davvero suo. Nel ragazzino, invece, reso zoppo da una malformazione, vede rivivere il se stesso più giovane, soprattutto per la sua capacità di immaginare un futuro diverso, di grandi opportunità, nonostante la vita lo abbia colpito duro. E negli occhi di Cinto riconosce anche la stessa meraviglia che era nei suoi per le cose che, di fronte allo sguardo di un adulto (o anche di un bambino benestante), sembrano essere le più insulse; meraviglia che ha perso e che, in fondo, un po’ gli invidia. Per questo decide di prenderlo sotto la propria ala, per diventare una sorta di spirito guida capace di regalare compagnia e pillole di saggezza.

Il paesaggio delle Langhe (fonte: attraversofestival)

Nuto, la Resistenza e il furore steinbeckiano

Tra gli altri, Anguilla rincontra Nuto, suo amico d’infanzia, per il quale ha sempre provato grande ammirazione. Nuto non si è mai mosso dal paese, ma non è più quello di una volta: la povertà attorno a lui, ma soprattutto la Guerra e la Resistenza, l’hanno cambiato. Ora le feste, il divertimento, la musica gli interessano poco, e la maggior parte della sua attenzione va alle tematiche sociali, al contrasto tra la ricchezza di pochi e la povertà di molti. È un simpatizzante di sinistra, Nuto, ed è stato anche parte attiva nella lotta contro l’occupazione nazifascista. E proprio Resistenza è una parola chiave per interpretare la storia, perché La luna e i falò è ambientato in un periodo che non può essere capito se non si tiene conto delle cicatrici lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in una terra come il Piemonte meridionale, punto di riferimento nella lotta alla Germania e alla Repubblica di Salò. E infatti quello delle Langhe degli anni 50 è un mondo in cui gli strascichi del conflitto sembrano non finire mai, dove la gente pare abituata a veder morire le persone e a rinvenire, di tanto in tanto, qualche cadavere qua e là. Ma, soprattutto, la guerra ha impoverito ancora di più una terra già povera di suo (almeno, all’inizio del Novecento; oggi la situazione è ben diversa): la miseria diventa per le persone che la abitano una spinta, come nel caso di Nuto, ad abbracciare ideologie di sinistra, di giustizia sociale, di rivalsa contro i padroni. Ma è anche fonte di un furore steinbeckiano, capace di generare uomini cattivi come il Valino e seminare morte e distruzione tra i più deboli.

«Hanno un bel vivere in un buco o in un palazzo, il sangue è rosso per tutti».

«Lui mi rispose che ecco, sono i soldi, sempre i soldi: averli o non averli, fin che esistono loro non si salva nessuno.»

Alcuni dei discorsi di Nuto in La luna e i falò

La simbologia del romanzo

La luna e i falò del titolo sono due elementi importanti, che richiamano una simbologia arcaica; un riferimento al mito, al substrato ancestrale che permea la terra in cui Pavese è cresciuto e che ne rappresenta l’identità più profonda, quella che il susseguirsi dei governi e delle primavere non ha scalfito. La luna è il simbolo delle stagioni, che si susseguono in un ciclo seguendo il suo movimento nel cielo. È la manifestazione fisica della circolarità della natura, un promemoria che ricorda all’uomo di rispettare le sue leggi come fa il contadino, che si basa sulla sua posizione per decidere quando fare certi lavori, onde evitare che il legno venga mangiato dalle larve o che gli innesti non attacchino. I falò sono invece il simbolo della superstizione, ma anche della speranza e della fede nella natura. Essi rappresentano la distruzione purificatrice, come nel caso di Santa, una giovane donna che ha condotto una vita di doppiogiochismo, emendata nel momento in cui un falò ne cancella i resti mortali. Ma rappresentano anche la distruzione che serve a ricostruire, come succede a Cinto che, quando le fiamme lo liberano da un padre violento e da un’avidissima padrona di casa, può finalmente pensare di costruirsi un futuro andando a lavorare da garzone.

La luna vista dalle Langhe (fonte: tripadvisor)

Anguilla come simbolo

Ma la luna e i falò non sono i soli simboli importanti del romanzo. Il fatto che il protagonista non abbia un vero nome, infatti, unito al fatto che non abbia né madre né padre, rende Anguilla stesso una rappresentazione, l’immagine del langarolo che lascia le proprie colline per cercare fortuna altrove e che vi ritorna dopo tanti anni per ritrovare, questa volta, se stesso, il proprio passato, e un’identità che ha scoperto essere fortemente legata alla terra. Anguilla lo capisce trovandosi lontano, nel momento in cui guardando la luna in California non vi ritrova l’entità rassicurante a cui era abituato: vede una luna diversa, una luna estranea, troppo slegata dai significati profondi di cui si era caricata quando era bambino. Ma non accade soltanto con la luna.

«Capii nel buio, in quell’odore di giardino e di pini, che quelle stelle non erano le mie, che, come Nora e gli avventori, mi facevano paura.»

Lontano dalla sua terra si sente un estraneo, qualcuno che non appartiene, un vagabondo che non ha un vero posto dove stare. Ritornando al paese si riscopre, in maniera molto materiale, perché sono i profumi, i colori, i sapori e tutti gli stimoli sensoriali ad aiutarlo a ricostruire se stesso e la sua connessione con le vigne, il fiume, le colline. Anguilla capisce, tornando, quanto sia importante rimanere aggrappati alle proprie radici, perché sono ciò che costituisce il fondamento della nostra identità e l’unica cosa che leghi assieme tutte le fasi della nostra vita.

«Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio. È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo più di avere addosso.»

Cesare Pavese (fonte: raicultura)

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