UN RACCONTO DI Marco Ferrero
A l’ombreta dël busson
bela bërgera l’é ‘ndurmìa
La piccola Maria, otto anni di vivacità e spensieratezza, adorava cantare quella canzone. Aveva una bella voce, come quella di un usignolo. La mamma glielo diceva sempre. Quando cantava, ai suoi amici veniva voglia di intonare qualcosa con lei. Da grande voleva fare la cantante, come Nilla Pizzi.
A l’ombreta dël busson
bela bërgera l’é ‘ndurmìa
Con i suoi amici stava saltellando per la campagna del basso Piemonte. Faceva caldo, in quella giornata afosa dell’estate del 1965. I loro amici più fortunati, quelli con i genitori che lavoravano in fabbrica, erano andati al mare in Liguria per Ferragosto, mentre loro, figli di contadini e piccoli allevatori, dovevano accontentarsi delle stradine sterrate e degli sporadici bagni nei canali. Maria però non si buttava mai. Diceva a tutti che era stato suo padre a proibirglielo, ma Aldo giurava che l’aveva sentita dire di avere paura. In effetti era vero, ma non voleva ammetterlo; per questo, gli altri la prendevano in giro e la schizzavano con l’acqua, e Maria si arrabbiava moltissimo. Stringeva i pugni e faceva salire tutto il sangue alla testa, e diventava rossa come i papaveri in mezzo all’orzo.
Anche quel pomeriggio i bambini avevano cercato un po’ di sollievo dalla calura in un canale carico d’acqua. Maria li osservava seduta su di una roccia. Di fianco a lei cresceva una pianticella di dente di leone, con i fiori gialli come tanti piccoli soli. Ne strappò uno e lo rigirò un poco tra le dita affusolate. Il suo colore acceso le dava tanta allegria. Ripulì il gambo da una goccia del liquido biancastro che era fuoriuscito al momento di strapparlo e lo incastrò tra i capelli corvini. La nonna le diceva che quelle erano lacrime, che il fiore piangeva perché era stato staccato dalla sua mamma, ma Maria non ci faceva caso. Lo sanno tutti che i fiori non piangono, tranne forse quelli del Campo Santo, che a forza di vedere tanta tristezza magari diventano capaci di provare dolore. Non i crisantemi davanti alla tomba di suo fratellino Matteo, però: lui era un angelo perché era morto appena nato e non aveva commesso nessun peccato; per questo i suoi fiori erano bianchi, puri come la sua anima che era volata in Paradiso a vedere Gesù. I fiori di un angelo non possono essere tristi.
«Maria, che fai? Non ti butti nemmeno oggi? Si sta benissimo qui!»
«Non mi va. E lo sai che mio papà non mi lascia.»
Marcella la stuzzicò. «Dai, non fare la bambina piccola.»
Perché non avrebbe dovuto fare la bambina piccola? Era la più giovane di tutti loro, poteva permetterselo tranquillamente. «E voi non fate i cattivi.»
Aldo la indicò sghignazzando: «Vedete, che vi ho detto? Ha paura, è una fifona che si piscia sempre nelle mutande.»
«Non è vero, bugiardo!»
Aldo cominciò a fare il verso della gallina e a muovere le braccia come un pollo impazzito, e gli altri lo imitarono. Maria era diventata scarlatta dalla rabbia, e alcune lacrimucce rancorose cominciavano a fare capolino dagli angoli degli occhi, vispi e verdi come l’erba in primavera. «Smettetela! Sono più coraggiosa di tutti voi messi insieme, ci scommetto.»
«Ah sì?» Franco, che aveva dieci anni ed era il più grande della compagnia, ruppe il silenzio che aveva mantenuto fino a quel momento. Avanzò con le braccia conserte e l’aria di chi la sapeva lunga, mentre tutti gli altri rimasero in silenzio, in attesa di sentire quello che aveva da dire. Fece una pausa ad effetto, di quelle che gli avevano insegnato a fare a scuola quando avevano fatto una piccola recita con il maestro, e sentenziò: «Se sei davvero così coraggiosa, prima che sia sera entri nella Casa delle Masche.»
Si fece un silenzio tombale. Le guance di Maria da rosse diventarono pallide, e qualcuno rabbrividì. La Casa delle Masche era un vecchio casolare abbandonato in mezzo ai campi, in cui si diceva si aggirassero gli spiriti maligni. Nemmeno gli adulti osavano avvicinarsi. Chi era entrato nell’aia raccontava di avere sentito rumori e voci sibilanti, e di essersela data a gambe immediatamente. Si dice che tanti anni prima, quando c’era la guerra, un partigiano in fuga dai tedeschi si era nascosto dentro la casa; nessuno poteva essersi avvicinato per ucciderlo, ma nonostante questo non si era mai più fatto vivo. Gli abitanti del luogo pensavano che vi albergassero le masche più malvagie di tutto il Piemonte.
«Franco, non puoi chiederle una cosa del genere. Le masche se la prenderebbero e non la riporterebbero più indietro.» Aldo si era fatto serio. Per lui era già stato un atto eroico guardare la cascina da lontano; entrarci era una follia.
«Poi se non torna? Cosa raccontiamo alla sua famiglia?» Anche Marcella mostrò il suo disappunto, insieme a tutti gli altri bambini, Andrea, Michele ed Anna.
Franco, con la bocca piegata di lato in una smorfia dubbiosa, prese a grattarsi il mento, come faceva quando si pentiva di qualcosa. «Avete ragione, ho esagerato. Maria, io…»
«Lo faccio!»
«Cosa?!»
«Vado nella Casa delle Masche.»
La sua faccina di bambina minuta aveva assunto un’espressione decisa. Voleva farlo. Doveva farlo, doveva convincere quegli stupidi di non essere una fifona. Gliela avrebbe fatta in barba a tutti, anche ai maschi più grandi.
«Guarda che non devi farlo, se non vuoi.»
«Io voglio, invece.»
«Va bene, ma noi non ci avviciniamo. Ti guardiamo solo da lontano.»
Si incamminarono a piccoli passi, e parlavano solo sussurrando. Nessuno di loro aveva fretta di arrivare, tantomeno Maria. Cominciava a pentirsi di quello che aveva detto, ma ormai non si tornava più indietro. Aveva accettato la sfida, e tutto quello che poteva fare era portarla a termine. Era pomeriggio inoltrato, e il sole era sempre più vicino alle montagne. Dovevano sbrigarsi: se non fossero tornati a casa prima che si fosse fatto buio sarebbero stati in guai seri. Sarebbe entrata, giusto il tempo di una sbirciatina, e poi sarebbe uscita. Facile e indolore. Dopo una quindicina di minuti di cammino arrivarono in vista del casolare. Aveva un aspetto sinistro. Una trave del fienile era caduta, portandosi dietro un mucchio di vecchie tegole di terracotta. Il resto della struttura a due piani restava invece in piedi, ma era in rovina. I vetri delle finestre erano quasi tutti rotti, tranne alcuni di quelli che si affacciavano sul balcone. Le inferriate erano arrugginite, e l’edera si arrampicava vorace sulla facciata. Il portone d’ingresso, un tempo massiccio e maestoso, aveva uno squarcio nel mezzo ed era socchiuso; il battente in bronzo era a terra, e faceva capolino nell’erba alta. Un tempo era una villa, usata da gente ricca per passare i mesi più caldi dell’anno lontano dalle pietre della città; ora non era altro che un ammasso di mattoni, soltanto un’ombra della bella cascina che doveva essere un tempo. A quell’ora la casa era riparata dal sole da un’antica quercia, che, senza nessuno a domarne la crescita, si era impossessata del tetto, appoggiandovisi con i suoi rami come un vecchio al bancone di un bar.
«Noi ci fermiamo qui, Maria. Da qui in avanti dovrai andare da sola.»
Furono di parola: non si mossero di un solo centimetro. Avevano trovato il posto ideale da cui controllare che entrasse davvero e non imbrogliasse, a una cinquantina di metri dal cancello d’ingresso. Maria deglutì. Aldo ebbe la brillante idea di darle un consiglio estremamente superfluo.
«Non correre, che magari ti inciampi e non ti alzi più.»
In tutta risposta, Marcella lo colpì con una gomitata alla bocca dello stomaco. Maria deglutì di nuovo; poi si incamminò. Accelerò il passo. Voleva che quella tortura durasse il meno possibile. Mancavano venti metri al portone. Quindici. Dieci. Il cuore batteva sempre più veloce, fino a raggiungere un ritmo altissimo. Poteva sentirne i battiti rimbombare per tutta la casa, o almeno così credeva. Cinque metri. Quattro. Tre. Due. Uno. Era davanti all’ingresso. Ora arrivava la cosa più difficile: trovare la forza per aprirlo. Sentiva che le braccia non volevano collaborare, erano molli come la ricotta. Si asciugò il sudore nella gonna del suo vestito arancione a fiori. Forse le masche odiavano i fiori e i colori accesi e non le avrebbero fatto niente. Provò a spingere il portone con una mano sola, ma non si mosse di un millimetro. Dovette usarle entrambe e puntare forte i piedi nel terreno, prima di ottenere uno spazio sufficiente per infilarsi. Ce l’aveva fatta: era dentro.
Si trovava in un salone. Non era propriamente enorme, ma era molto più grande di quello di casa sua. Sul pavimento giaceva un dito di polvere, che sembrava assorbire i suoni come fa la neve appena caduta. C’era un divano tutto strappato, con l’imbottitura sparsa in giro per il pavimento. Sopra ad un tavolino vide un vaso, forse di porcellana, che un tempo doveva essere pieno dei fiori più colorati, ma che ora era vuoto come l’oscurità di una notte d’inverno. Le ragnatele avevano invaso il soffitto, ma non c’era traccia dei ragni che le avevano intessute. All’apparenza erano come fossili, rimaste lì, immobili, dalla notte dei tempi. Persino il canto dei passeri che si sentiva nel cortile del casolare ora non esisteva più. Aveva l’impressione di essere entrata in un’altra dimensione varcando quella soglia, in un luogo senza tempo e senza vita. Sulla destra c’era una porta, che dava sulla cucina. Per terra, alcuni cocci di vetro e ceramica e una sedia rovesciata stonavano con l’ordine di decine di stoviglie, pentole e padelle di rame che ancora erano appese alla parete. Attaccata ad un gancio, una lampada ad olio, che un tempo serviva ad illuminare la notte ma che allora era ormai obsoleta, soppiantata dalla luce elettrica. Maria si chiese da quanto tempo quel posto fosse abbandonato. In ogni caso, non aveva ancora avuto nessun indizio che rivelasse la presenza delle masche. Era più che sollevata riguardo a questo, e decise di avere già curiosato abbastanza. Era ora di tornare indietro.
Proprio mentre stava per girare i tacchi, un gatto le passò strusciandosi in mezzo alle gambe. La bambina trasalì, ma quando vide il piccolo felino che si leccava una zampa si calmò.
«Non mi hai spaventato, sono coraggiosa, io. Va bene, forse un po’; sì, ma solo perché non me lo aspettavo.»
La bestiola parve non farle caso, e prese a salire le scale che portavano al piano di sopra. Arrivato a metà rampa, si voltò verso di lei e miagolò, come per invitarla a seguirlo. Il sole fuori era sempre più basso, e l’illuminazione nella casa stava facendosi sempre più scarsa; tuttavia decise di curiosare ancora un po’. Non aveva niente di cui aver paura; aveva capito che gli spiriti in realtà non erano nient’altro che un’invenzione. Salì al piano di sopra. Il gatto l’aspettò vicino a una porta, poi sparì dentro alla camera. Maria si avvicinò. Cominciava a sentire qualcosa di strano, come una musichetta. La stanza non aveva finestre, e l’unica illuminazione era garantita dai pochi raggi che entravano dall’ingresso. Il gatto non c’era più, era svanito. Da dove era uscito? Non sapeva spiegarselo. In un angolo della stanza c’era un vecchio grammofono a molla: era da lì che proveniva la musica. Ma chi lo aveva caricato? Non c’era nessuno in quella casa. Non poteva certo essere stato il gatto. Ora sì, aveva veramente paura. Qualcos’altro però attirò la sua attenzione. Uno degli ultimi raggi di sole centrava perfettamente un piccolo manifesto sulla parete vicino al grammofono. Vi era raffigurato un ragazzo giovane, con il cappello da soldato e un fucile in mano che cantava dietro a un microfono. In alto, la scritta: “DIVENTA CANTANTE E REALIZZA I TUOI SOGNI”. Rimase incantata. Era proprio ciò che voleva, ciò che più desiderava: essere una cantante. Con un dito, toccò il manifesto.
Fuori dal casolare i suoi amici cominciavano a preoccuparsi. Maria non usciva dalla casa, e ormai il tramonto era questione di minuti. Franco prese coraggio e disse:
«Io vado a cercarla.»
«Veniamo anche noi.»
Una volta dentro, notarono che non c’erano impronte nella polvere, come se nessuno ci fosse passato da anni. Chiamarono Maria e la cercarono, ma al piano di sotto non c’era. Salirono le scale e guardarono ognuno in una stanza. Marcella entrò in una camera buia e vuota, senza finestre. Non c’era nulla. Stava per andarsene, quando notò qualcosa sul pavimento. Entrò e lo raccolse: era il fiore di dente di leone che Maria si era messa tra i capelli, ma sembrava sbiadito, pallido. Morto. Guardò meglio intorno a sé. Nella penombra, riuscì a scorgere un piccolo manifesto per terra, vicino a una parete. C’era una scritta, che recitava: “DIVENTA CANTANTE E REALIZZA I TUOI SOGNI”. Era raffigurato un microfono. Marcella urlò di terrore. Dietro al microfono, sorridente e intenta a cantare a squarciagola, c’era Maria.
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