Il Piacere – Gabriele D’Annunzio

DI WASHOE

Il Piacere (Milano, 1889, ed. Treves), il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio, costituisce un grande punto di svolta all’interno della letteratura italiana, fino ad allora condizionata dal Naturalismo e dal Positivismo, introducendo nella cultura della penisola la figura dell’esteta decadente.

Il protagonista, Andrea Sperelli

Al centro del romanzo vi è il giovane conte Andrea Sperelli-Fieschi D’Ugenta, erede d’una famiglia nobile di artisti, un esteta che si muove tra la frivola ed elegante nobiltà romana di fine Ottocento, in mezzo a palazzi e giardini meravigliosi e ai vizi a volte assurdi dell’alta società della sua epoca. Andrea, dopo la separazione dei genitori, è cresciuto a fianco del padre, esteta anch’egli, sempre impegnato in una ricerca continua del bello e della novità; la sua educazione, fatta non di insegnamenti ma di esperienze, porta il giovane Andrea a ricercare piaceri sempre nuovi e a sacrificare sull’altare delle voluttà due grandi forze interiori dell’animo umano, quella morale e quella di volontà.

Fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte“: l’educazione paterna

L’educazione paterna si riassume in due massime, che plasmano il carattere di Andrea e ne condizionano la crescita. La prima è una frase celebre, che rende evidenti le affinità tra il protagonista del romanzo e il suo autore, D’Annunzio stesso, di cui lo Sperelli sembra essere un alter ego: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.» È il manifesto dell’estetismo, la regola aurea dell’uomo decadente, colui per il quale la bellezza è l’unico valore possibile: Andrea sceglie di seguirla alla lettera e la sua vita diventa una grande menzogna, una rappresentazione teatrale senza fine. Tutto in lui, dagli atteggiamenti alle parole, è artefatto, costruito a tavolino come lo schizzo d’un pittore, e le relazioni amorose e interpersonali diventano una grande farsa, un semplice mezzo per il raggiungimento del piacere.

Habere, non haberi

La seconda massima è un motto latino che ha in lui effetti contrastanti: «La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: Habere, non haberi.» Possedere, non essere posseduto: si tratta evidentemente di una massima volontaria, ma nel tentativo di seguirla Andrea si lascia lentamente ma inesorabilmente sopraffare dalle sue stesse menzogne, che cominciano a guidare la sua vita e a prenderne il pieno possesso. Da artefice del proprio destino Andrea diventa schiavo dei suoi stessi artifizi, e arriva al punto di essere costretto a seguire il corso degli eventi lasciandosi trasportare senza poter decidere nulla, in un annullamento totale della sua volontà che stride con la regola da cui il processo aveva avuto origine. 

Un principe romano

Galleggiando nel suo mare di falsità Andrea si muove nell’ambiente nobiliare romano, frivolo e ammuffito, fatto di uomini e donne che passano il tempo a sparlare di persone con cui un attimo dopo si comportano da migliori amici. Inutile dire che il conte D’Ugenta si trova perfettamente a suo agio nell’ipocrisia dell’Urbe, di cui costituisce forse il prodotto più pregiato; d’altronde, quando gli viene chiesto che cosa avrebbe voluto essere, egli risponde: «Un principe romano.» Sperelli è innamorato di Roma, ma non della Roma degli imperatori bensì della Roma dei papi: non gli interessano la gloria antica e le strette regole del Mos maiorum, ma lo sfarzo di certe ville nobiliari come Palazzo Farnese o Villa Medici, sognando un giorno di possedere una di quelle case decorate da Michelangelo o dai Carracci per soddisfare la propria sete di bellezza semplicemente dando uno sguardo alle proprie stanze.

Una veduta notturna della “Roma dei papi”

Elena e Maria, le due donne de Il Piacere

Le sue giornate trascorrono tra balli, pranzi, aste di oggetti preziosi, ma soprattutto tra mille conquiste amorose, tra cui risaltano due donne in particolare che contrastano tra loro per aspetto ma soprattutto per spirito: la femme fatale Elena Muti e la cattolicissima Maria Ferres. La prima rappresenta la sensualità, la bellezza, l’amore voluttuoso, mentre la seconda è un esempio di integrità, di castità e di buone intenzioni; lo spirito di Andrea si lacera irrimediabilmente, smarrito tra “Elena vestita di porpora”, il colore della passione carnale, e “Maria vestita d’ermellino”, il bianco simbolo di purezza. I nomi delle due dame sono stati scelti da D’Annunzio con grande cura, perché se quello della Muti si riferisce alla celebre donna che, innamorandosi di Paride, diede inizio alla guerra di Troia, quello della Ferres è un chiaro riferimento alla Vergine madre di Cristo, mai macchiata dal peccato.

Due immagini che si sovrappongono

Persino l’innamoramento dello Sperelli per le due donne avviene in due momenti apparentemente agli antipodi, perché se Andrea si invaghisce di Elena in occasione di un pranzo mondano a casa della cugina, la Marchesa D’Ateleta, il suo amore per Maria sorge in un periodo di riflessione durante la convalescenza da una ferita ottenuta in un duello, nel quale, lontano da Roma e dal suo microcosmo aristocratico, sembra pentirsi del proprio passato, delle proprie menzogne, delle proprie illusioni. Quando, ormai guarito, torna in società, i due sentimenti, l’ansia di redenzione e la ricerca del piacere, si sovrappongono e si mescolano, allo stesso modo in cui si confondono le immagini delle due donne, creando nella fantasia di Andrea un essere quasi mitologico che ha in sé al contempo la sensualità di Elena e la purezza di Maria. Purtroppo per lui, però, la pulsione verso l’ideale generata dalla convalescenza si consuma troppo presto, e la sua brama di piacere ha nuovamente il sopravvento: scottato da un rifiuto di Elena, confondendo l’immagine di lei con quella di Maria urla il suo nome mentre è a letto con quest’ultima, spezzando il cuore della povera donna che si era illusa di poterlo redimere e ritrovandosi solo al mondo.

L’analisi psicologica e l’anticipazione del panismo

La trama del romanzo è di per sé piuttosto semplice, poiché l’intento di D’Annunzio non è tanto quello di raccontare la storia di Sperelli quanto piuttosto quello di analizzarne la personalità, che descrive come “camaleontica, mutabile, fluida, virtuale”, in uno slancio quasi psicoanalitico (ante-litteram: L’interpretazione dei sogni di Freud uscirà dieci anni dopo) del tutto nuovo all’interno del panorama letterario italiano. È molto interessante in particolare il passaggio della convalescenza, non a caso trascorsa in una località della Campania ben lontana dai salotti romani, durante il quale la sensibilità d’artista di Andrea, non più incatenata dall’ipocrisia della vita di mondo, si lascia catturare dallo spettacolo meraviglioso e spaventoso insieme del mare e della natura che lo circonda. Le piante, il vento, le onde e il cielo plasmano lo spirito del protagonista che si fonde con gli elementi naturali e anticipa così il panismo che caratterizzerà parte della produzione dannunziana successiva; è tuttavia un periodo breve per il giovane Sperelli, perché quella comunione totale con il cosmo diventa un ricordo lontano non appena ritorna in quella società mondana che ne avvelena la personalità.

Il mare di Rovigliano, lo stesso che ispira lo Sperelli durante la sua convalescenza

Lo stile de Il Piacere, aulico e ricercato

Dal punto di vista dello stile Il piacere non è un romanzo semplice, per via di una prosa aulica e ricercatissima, ai limiti del barocco; D’Annunzio ha riversato nelle sue pagine tutta la propria erudizione, inserendo latinismi, frasi inglesi, tedesche, spagnole, francesi, in greco antico, citando numerose opere d’arte senza mai nascondere una certa compiacenza nell’ostentare il proprio sapere. Il suo animo profondo di poeta è tuttavia ben evidente all’interno del romanzo, specie in quei passaggi in cui crea attraverso l’uso di parole ed accostamenti audaci immagini meravigliose, trasmettendo con maestria le sensazioni dei colori, dei profumi, dei sapori, generando nel lettore una vaga voglia di visitare Roma con il solo scopo di vedere quei luoghi così mirabilmente, e minuziosamente, illustrati. Spesso corre anche il rischio di risultare alquanto stucchevole nelle descrizioni, specie quando si perde nel racconto del lusso di certe stanze cariche di suppellettili provenienti da ogni dove, dipingendole in maniera così precisa da dare la sensazione di trovarsi tra le stanze caotiche della sua futura dimora, quel Vittoriale degli Italiani che all’epoca era però ben lontano dall’essere ideato.

Una delle caotiche stanze del Vittoriale degli Italiani

La carica erotica

Il titolo del romanzo, Il piacere, non rappresenta solamente il grande scopo della vita del protagonista, ma è anche una dichiarazione d’intenti dell’autore, che attraverso la parola desidera portare al lettore un diletto non lontano dalla soddisfazione carnale. D’Annunzio nasconde tra le righe una forte carica d’erotismo sensuale, che non si palesa volgarmente attraverso descrizioni di seni, di cosce, di genitali, ma resta latente; si carica come una molla in ampie digressioni ed esplode in tutto il suo potere in gesti che appaiono innocenti, ma che sono dotati in realtà di un forte potere di seduzione: una gonna che si alza poco al di sopra delle caviglie, una manica che scivola e lascia scoperto il candore di un braccio, una mano femminile lasciata libera dal guanto. A farla da padrone è dunque la sensualità di ciò che è nascosto, di ciò che è inaccessibile e per questo ancora più desiderabile, ancora più bello, ancora più impregnato di passione e di eros.

Il Piacere: un’immersione nella mondanità del passato

Il piacere è dunque un romanzo complesso, ricercato, aulico e aristocratico (spesso D’Annunzio si lascia andare a critiche verso la società democratica le classi sociali più basse, di cui evidenzia la volgarità, la scarsa sensibilità artistica e in generale l’inferiorità nei confronti dell’aristocrazia), ma che permette ad un lettore libero da pregiudizi di immergersi nell’atmosfera della nobiltà romana di fine Ottocento e di essere avvolto dal clima decadente che l’ha fatta da padrone tra la fine del Diciannovesimo secolo e l’inizio del Ventesimo, oscillando tra l’ammirazione e il disprezzo per la figura ambigua del primo fra gli esteti della letteratura italiana, il bello e dannato Andrea Sperelli.

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