Il giovane Holden – J.D. Salinger

Fin da quando è uscito nel 1951, Il Giovane Holden (The Catcher in the Rye) non smette di generare pareri contrastanti nei suoi innumerevoli lettori, tra chi lo considera un’opera fondamentalmente brutta e inelegante e chi invece un caposaldo della letteratura. Si tratta di un libro forte, polarizzante, un racconto diretto dei tormenti dell’adolescenza e del difficile passaggio alla vita adulta. Un romanzo che forse andrebbe letto per la prima volta da giovani, ma che è capace di offrire spunti interessantissimi a chiunque, tra discorsi memorabili e un’immagine, quella del prenditore nella segale, che ha ispirato negli anni innumerevoli artisti di ogni disciplina.

J.D. Salinger (fonte: illibraio)

Uno stile colloquiale

Il romanzo è scritto come fosse un memoriale del protagonista, l’adolescente Holden Caulfield, che ripercorre una manciata di giorni vissuti tra l’espulsione da un collegio e il ritorno a casa per le vacanze di Natale. Aprendo il libro si intraprende un viaggio attraverso i pensieri di un ragazzo fuori dal comune e ribelle in un modo tutto suo, mentre questi si lancia in una sorta di dialogo continuo con un interlocutore che però non può rispondere, trasformando il testo in un lungo monologo interiore. Holden racconta quel piccolo pezzo della propria storia come se stesse parlando ad un amico della sua età, con uno stile che si avvicina molto all’oralità tipica di un adolescente, con tanto di parolacce ed espressioni molto poco eleganti. Questo stile colloquiale e semplicistico aveva fatto storcere il naso a molti all’uscita, a tutti quelli che ancora cercavano in un libro la pulizia della forma e un tono pacato. Eppure, al contempo, aveva fulminato molti altri per la freschezza, nonché per la schiettezza con cui era stato riprodotto il modo di pensare e di esprimersi di un ragazzino ribelle. E lo stile continua a fare colpo tutt’ora, specie su quei giovani che si aspetterebbero ben altro linguaggio da un testo consigliato pressoché da tutti i professori di italiano.

Un narratore poco credibile

Lo stile colloquiale e facilmente accessibile fa sì che il lettore percepisca un sentimento di vicinanza ad Holden; al contempo, però, si viene a creare un altro effetto, una sensazione costante di instabilità e di incertezza: Holden non è un narratore credibile, ma ha un modo di esprimersi confusionario e sconclusionato, che porta a dubitare di tutto ciò che racconta. Passa dall’esaltare una persona o una situazione a denigrarla completamente nel giro di poche righe, cambia idea su tutto, dimostra spesso di ragionare come la volpe che non arriva all’uva; insomma, non si può mai sapere se le cose che dice corrispondano a verità. Ma non perché Holden menta consapevolmente: spesso infatti cambia idea semplicemente perché ha detto qualcosa senza pensarci, con troppa leggerezza, come fanno i ragazzini sbadati. Ma non è soltanto questo a minare la sua credibilità. C’è un’espressione in particolare che ripete spessissimo: “sul serio”. È come se Holden stesse costantemente cercando di convincerci di qualcosa, di spiegarci che lui sì, dice la verità, è una persona seria ed affidabile; ma sembra che cerchi al contempo di convincere se stesso, come fanno i bambini quando raccontano le bugie. Perché questo è quello che è Holden: ancora un bambino, che cerca di acquisire autorevolezza di fronte agli adulti con dei trucchetti infantili che, però, non hanno mai funzionato né mai funzioneranno.

Un’illustrazione di Holden (fonte: fox)

La visione del mondo di Holden

Non è soltanto il modo di esprimersi però che tradisce Holden riguardo alla sua età. Anche il suo modo di vedere il mondo racconta molto sul suo conto, con la tendenza che ha a catalogare tutto quanto in categorie rigide, brutto e bello, buono e cattivo, bianco e nero. Come un bambino, Holden non sa andare oltre alle percezioni più immediate, prende tutto alla lettera, ed è totalmente sprovvisto di un vero senso dell’umorismo (nonostante affermi che molte cose lo divertano). Finisce così per vivere di assoluti, e chiama ipocrisia tutto ciò che in realtà è un compromesso: Holden ha l’innocenza e l’ingenuità del cuore giovane e puro che non ha ancora scoperto l’importanza della mediazione, e allora, per questa sua maniera di guardare alla realtà, non può che collezionare una delusione dopo l’altra da parte delle persone che lo circondano. Nessuna di loro sarà mai quella figura perfetta che vorrebbe attorno a sé, ma ognuno dimostra di avere il proprio piccolo difetto, tra professori che dicono sempre le stesse (inutili) cose, un mentore che, a suo dire, gli fa delle avances sessuali e degli amici che sembrano proprio non riuscire a capirlo.

La paura del cambiamento

Holden è fondamentalmente un bambino che in quei pochi giorni di girovagare solitario gioca a fare l’adulto, bevendo alcolici nei bar, corteggiando giovani donne e chiamando nella sua camera d’albergo una prostituta. E mentre prosegue in questo percorso, che è come la sua discesa agli Inferi, rimugina sul passato e sulle esperienze di ieri e di oggi, e si rende conto di come il suo grande problema, quello che gli ha reso la vita difficile fino a quel momento, è che semplicemente ha una paura matta di diventare adulto. Holden vorrebbe essere come Peter Pan, o meglio come quel bambino che vede camminare per strada, noncurante delle auto che lo sfiorano, cantando una canzone che sembra essere l’unica cosa che conta, incosciente di tutto e di tutti. Ma non può: il suo corpo sta già cambiando, e presto dovrà cambiare anche il suo modo di pensare se non vorrà essere un reietto. Eppure, il mutamento lo terrorizza e lui vorrebbe impedirlo, e rendere il suo mondo come le teche del museo di storia naturale: sempre le stesse, sempre intrappolate in un istante eterno e immobile. Lui si rende conto però di essere come il visitatore, che per quanto ci provi non tornerà mai nel museo esattamente uguale a com’era l’ultima volta: ogni visita alla mostra è destinata, inevitabilmente, ad essere diversa dalla precedente, perché nessuno potrà mai dire di averla vista davvero due volte.

Il museo di storia naturale a New York (fonte: hyperallergic)

The catcher in the rye

L’idea del cambiamento continuo spaventa Holden, che come ogni bambino ha bisogno di stabilità: una famiglia, una casa, una scuola, gli amici di sempre. Ma la vita adulta è fatta di mutazioni continue, e per questo lui vuole evitarla per sé e per tutti, come spiega alla sorella Phoebe. Holden ha infatti una grande visione onirica derivata dalla storpiatura di una canzone popolare, da cui deriva il titolo originale del romanzo: un immenso campo di segale su di una collina, che termina in un grande precipizio. Nel campo, migliaia di bambini che corrono a perdifiato senza guardare dove vanno, con l’incoscienza un po’ folle tipica dell’età, e che rischiano di cadere nel burrone. E allora, sul bordo della scarpata c’è un uomo, the catcher in the rye, il prenditore o l’acchiappabambini nella segale che dir si voglia, che ha l’unico compito di prenderli al volo ed impedir loro di cadere giù, verso il fondo del burrone. Da grande, Holden assicura di voler fare quel lavoro: il prenditore nella segale. La metafora è chiara: il precipizio rappresenta l’età adulta, la fine dell’infanzia e delle corse a perdifiato senza un perché, la caduta al mondo (come dice Guccini nella canzone “La collina”, ispirata a questo episodio del libro); il suo desiderio è quello di impedire che il passaggio alla maturità accada, e salvare l’innocenza dalle macchie dell’ipocrisia e dell’avidità. Ma prima o poi anche lui dovrà rendersi conto di come tutto ciò sia impossibile e accettare il naturale corso delle cose, secondo il quale gli uomini prima crescono e poi invecchiano, in un cambiamento che è conseguenza e fondamento insieme della nostra vita mortale. E forse capirà anche che, in fondo, questa mutevolezza permanente non è poi così male.

-Hai presente quella canzone che dice “Se ti prende al volo qualcuno mentre cammini in un campo di segale”? Ecco, io vorrei…

-Dice “Se ti viene incontro qualcuno mentre cammini in un campo di segale”! -mi fa la vecchia Phoebe. -È una poesia. Di Robert Burns.

-Lo so che è una poesia di Robert Burns.

Però aveva ragione lei. È vero che dice “Se ti viene incontro qualcuno mentre cammini in un campo di segale”. Solo che io all’epoca non lo sapevo.

-Credevo dicesse “Se ti prende al volo qualcuno mentre cammini in un campo di segale”, -ho detto. -Ad ogni modo, io mi immagino sempre tutti questi bambini che giocano a qualcosa in un grande campo di segale e via dicendo. Migliaia di bambini, e in giro non c’è nessun altro -nessuno di grande, intendo -tranne me, che me ne sto fermo sull’orlo di un precipizio pazzesco. Il mio compito è acchiapparli al volo se si avvicinano troppo, nel senso che se loro si mettono a correre senza guardare dove vanno, io a un certo punto devo saltar fuori e acchiapparli. Non farei altro tutto il giorno. Sarei l’acchiappabambini del campo di segale. So che è da pazzi, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe fare davvero. Lo so che è da pazzi.

La canzone “La collina” di Guccini ispirata all’episodio del romanzo, nella versione dei Nomadi con la Omnia Symphony Orchestra

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