Di Washoe
Opera più conosciuta dello scrittore bellunese Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari racconta la storia del tenente Giovanni Drogo il quale, perso in un’assurda attesa di un’ora di gloria che non arriverà mai, consuma tutta la vita nello squallore geometrico della Fortezza Bastiani. Un romanzo dotato di grande leggerezza, caratteristica notevole se si pensa alla riflessione esistenziale che si nasconde tra le sue pagine.
La fortezza e il deserto dei Tartari
La trama del romanzo è decisamente scarna. La storia è ambientata in una nazione senza nome, confinante a nord con una grande piana che ha la suggestiva nomea di deserto dei Tartari. A dominare quella landa desolata, e a proteggere dunque la nazione dalle incursioni dei fantomatici Tartari, c’è la Fortezza Bastiani, roccaforte incastrata sulle montagne, un tempo d’importanza strategica ma oramai ridotta a semplice presidio di frontiera. Proprio lì viene spedito il tenente Giovanni Drogo, un giovane pieno di nebulose speranze per il futuro appena uscito dalla scuola per ufficiali: nelle sue aspirazioni la fortezza deve essere la rampa di lancio verso una sfavillante carriera militare, ma non appena giunge a destinazione si sente schiacciato da un forte sentimento di inutilità, che lo porta a voler lasciare immediatamente il presidio per farsi trasferire da qualche altra parte; i suoi superiori, tuttavia, lo convincono a resistere per almeno quattro mesi, promettendogli la libertà dopo quella sorta di periodo di prova.
L’incantesimo del deserto
Passano le settimane e arriva la data tanto agognata, ma Drogo sceglie contro ogni pronostico di restare in quella caserma dove passerà inerte il resto dei suoi giorni, sostanzialmente rinunciando a vivere: è stato contagiato anche lui da una strana mania che sembra catturare tutti gli occupanti della fortezza. L’incantesimo di cui è vittima è una sorta di illusione collettiva: la speranza di vedere un giorno riversarsi sul deserto orde di Tartari pronte da attaccare la fortezza, ed avere così la grande occasione di ottenere una morte da eroi e la riconoscenza spassionata della nazione. Nessuno tra gli ufficiali e i soldati sembra potersi sottrarre alla malìa di quella pianura sconfinata, affascinante perché ignota, incorniciata al fondo, dove l’occhio si perde nell’orizzonte, da nebbie perenni che sembrano nascondere chissà quali segreti. Tutti sanno del potere magico del deserto dei Tartari eppure nessuno riesce a schivarne il magnetismo, rimanendo imprigionati in una fortezza che col passare degli anni assomiglia sempre più a un vero e proprio carcere.
Il narratore ne Il deserto dei Tartari
Immergendosi in questo quadro desolante, il lettore trova nella voce narrante un compagno di viaggio che gli cammina fianco a fianco e che ripercorre con lui la vicenda di Drogo. Nelle parole del narratore si può intravedere una nota di dispiacere per la strada scelta tenente, sentimento che a tratti si avvicina pericolosamente al disprezzo per un uomo che ha lasciato che la vita gli scivolasse tra le dita, rincorrendo un’illusione che l’ha allontanato dalle risate, dalle feste, dagli amori e da tutto ciò che dà sapore all’esistenza, per inseguire non si sa bene che cosa all’interno di una triste costruzione militare. E non si può che essere d’accordo su questo, a maggior ragione vedendo come Drogo, ormai invecchiato, si ritrovi completamente solo, dimenticato dalle persone che aveva amato e dimentico a sua volta di tutto ciò a cui aveva voluto bene prima di essere mandato al confine.
La vita, la strada, la morte
La scrittura di Buzzati si nutre di immagini che ne sono la colonna portante, e non sorprende dunque che l’elemento centrale del racconto, la vita, ne abbia una tutta propria. Buzzati le dà infatti la forma (classica) di una lunga strada, al principio affollata e vitale, nell’ultimo tratto solitaria e desolata, che termina in un oceano grigio e pieno di nulla che è il destino ultimo della vita del tenente e, in fondo, di tutti gli uomini. Scorrendo le pagine si osserva senza poter far nulla il tenente Drogo percorrere inesorabile la propria strada, senza rendersi conto di quante persone si sia lasciato indietro, di quante cose abbia oltrepassato senza nemmeno vederle, di quanto il mare si sia fatto vicino, di quanto poco tempo gli sia rimasto per vivere davvero. Attraverso la metafora Buzzati vuole lanciare un messaggio importante: troppo spesso gli uomini s’illudono di avere a disposizione un tempo infinito, dimenticandosi del destino finale di tutti che si approssima ad ampie falcate.
L’intervento del destino
Troppo tardi Drogo si rende conto di non poter ripercorrere il cammino all’indietro, e temendo di aver sprecato la propria vita si aggrappa, ormai lui soltanto, all’illusione di una guerra che riscatti i giorni passati nella fortezza, donando loro un nuovo valore. Quando una parvenza di movimento si palesa in fondo al deserto è l’unico che ancora crede alla venuta dei nemici, l’unico che ancora spera che quell’immagine incerta che si intravede da lontano sia il cantiere per la costruzione di una grande via militare che porti il nemico (e quindi la gloria) alle soglie della Fortezza Bastiani. Quindici anni si consumano nell’attesa, nell’osservare spasmodico e ossessivo l’avanzare di quelli che si rivelano davvero essere lavori per una strada; ma proprio quando il grande momento tanto atteso sembra essere arrivato interviene il destino, come a voler punire Drogo degl’ignavia di cui si è macchiato per anni.
Il tradimento della fortezza
Mentre il nemico è in arrivo, infatti, Drogo si ammala ed è ridotto a letto: eroicamente cerca di tirarsi in piedi per vedere l’esercito rivale, ma il corpo lo tradisce e sviene. Al risveglio si ritrova a fronteggiare l’odioso comandante del presidio, un inumano ufficiale che, camuffando le proprie intenzioni dietro a delle finte attenzioni da amico, gli comunica la sua decisione di disfarsi di lui per alloggiare nella sua stanza tre ufficiali delle truppe di rinforzo mandate dalla capitale. A nulla servono i trent’anni di servizio, a nulla la lunga conoscenza con il comandante: nell’ora tanto attesa la fortezza pugnala Drogo alle spalle, e lo rigurgita come un rifiuto disgustoso da smaltire al più presto.
La beffa finale
In una bella giornata di primavera abbandona dunque quella che per decenni era stata la sua casa, non come aveva sognato, tra gli allori, ma su una carrozza da infermo, subendo l’umiliazione di vedere i rinforzi arrivare alla roccaforte dalla pianura: loro, che avevano goduto delle bellezze della città, godranno anche del luccicare della gloria; lui, che aveva dedicato tutto se stesso alla fortezza, rinunciando ad ogni cosa, accettando trent’anni di nulla solamente per quel momento, è costretto ad andarsene. Le risate e gli sguardi delle truppe che risalgono la valle lo trafiggono come tante frecce al cuore, e Drogo si ritrova ad un certo punto da solo in una locanda di un paese sconosciuto, in una squallida stanza dove la morte lo raggiunge.
Un sussulto d’orgoglio per Drogo
Proprio nell’ora finale però, Giovanni Drogo ha il suo primo ed ultimo sussulto d’orgoglio, e prende la coraggiosa decisione di morire con dignità, affrontando quell’ultima sfida, la morte, con il valore che avrebbe voluto dimostrare sul campo di battaglia. All’improvviso niente più risentimento per chi l’ha cacciato, niente più odio contro un destino avverso e derisorio: tutto quello che gli rimane è la consapevolezza di essere arrivato in fondo al proprio viaggio, e la convinzione che la dignità negli ultimi istanti possa riscattare tutta una vita buttata dietro ad una mera illusione. Nessuno lo vedrà, nessuno gli darà una medaglia al valore, nessuno gli dedicherà monumento, ma almeno avrà la consolazione di morire in pace con la propria coscienza.
L’ispirazione per Il deserto dei Tartari e il suo grande valore
Ad un lettore attento risulta chiaro come Il deserto dei Tartari non sia solamente la storia di un soldato, ma soprattutto una metafora con cui Buzzati ha voluto parlare della ripetitività della vita dell’uomo medio del suo tempo. L’ispirazione lo raggiunse infatti durante un periodo passato nella redazione del Corriere della Sera, dove era impegnato in un lavoro che lo costringeva ad una vita così monotona da costringerlo a riflettere su come stava impiegando la propria esistenza. Il deserto dei Tartari è dunque anche un invito a lasciare da parte le comodità e le illusioni di sicurezza, per gettarsi a capofitto tra le braccia di una vita che non può essere fatta soltanto di attese passive e di lavori di routine. Un invito tanto più bello in quanto condito d’immagini suggestive che rendono il romanzo un’esperienza unica, tra monti imponenti, valli solitarie, deserti sconfinati, soldati eroici che muoiono sotto la tormenta, fortezze tetre e solitarie. Perché per quanto bello possa essere il messaggio che c’è dietro ad un romanzo, la letteratura non funziona se non si aggiunge un po’ di magia, di immaginazione, di poesia, e Buzzati l’ha fatto, lasciando ai posteri un romanzo magnifico, capace senza dubbio di pizzicare corde importanti e di portare il lettore a riconsiderare, almeno per un attimo, tutta la propria vita.
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