La distanza tra due culture non si misura in kilometri; certo è, però, che quando le capitali di due antichi imperi distano quanto Roma e Tokyo, quasi diecimila kilometri, è inevitabile che le differenze possano apparire abissali. C’è sempre però un punto di contatto, e quando questo viene individuato da una personalità fuori dall’ordinario ecco che le distanze si bruciano e consumano e si riducono al nulla. Ebbene, il legame tra Italia e Giappone è stato intessuto da un sarto di primordine, che costituisce tuttavia un personaggio ambiguo, perché attivo nel periodo forse più buio per entrambe le culture: il Fascismo italiano e l’ultranazionalismo nipponico. Stiamo parlando di Harukichi Shimoi, il samurai dantista con la camicia nera.
Harukichi Shimoi e l’amore per Dante
Harukichi Shimoi nasce a Fukuoka nel 1883, quarto figlio dell’antica famiglia samurai Inoue che, come tutta la celebre casta guerriera, aveva perso le proprie prerogative e i propri privilegi in seguito alla riforma Meiji (1866-1869). Harukichi Inoue, dunque, quando si sposa cambia il proprio nome in Shimoi prendendolo dalla moglie e dedica anima e corpo allo studio, facendo un incontro che lo folgora e che condizionerà tutta la sua vita: s’innamora, infatti, del Sommo Poeta italiano Dante Alighieri. Spinto dalla propria passione, quindi, Shimoi sbarca a Napoli nel 1911 dove, grazie all’intercessione dell’Ambasciatore italiano in Giappone Alessandro Guiccioli, ottiene l’incarico di docente di lingua giapponese al Reale Istituto Orientale della città partenopea, il più antico centro europeo di sinologia ed orientalistica.
La passione per la lingua italiana
All’ombra del Vesuvio l’innamoramento di Shimoi per l’Italia si fa viscerale, e quel giapponese un po’ troppo basso persino per gli standard nipponici, con le sopracciglia foltissime e l’occhio acuto ed intelligente parlerà per tutta la vita un italiano piegato da un forte accento napoletano. E se il suo amore per il Bel Paese nasce attraverso Dante, il fascino più grande non può che derivargli dalla lingua, molto diversa da quel Giapponese che crede mancare di qualcosa d’importante: «Il Giappone ha una lingua che bada all’estetica grafica, non possiede parole capaci di comunicare concetti astratti. L’Italiano, invece, non bada alla bellezza delle lettere, ma al valore dei pensieri». Nell’italiano trova dunque quello che stava cercando e che non poteva trovare nel linguaggio nipponico, e prende a frequentare i salotti intellettuali napoletani leggendo le riviste locali e facendo la conoscenza di personaggi del calibro di Benedetto Croce.
La Prima Guerra mondiale
Tuttavia Harukichi è figlio di samurai, e la vita puramente intellettuale non è sufficiente per il suo spirito effervescente; così, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Shimoi si sente chiamato alla partecipazione e si fa presto mandare al fronte come inviato dei giornali, riuscendo, tramite le proprie conoscenze, a raggiungere la prima linea eludendo l’obbligo per la stampa straniera di restare nelle retrovie. Durante il sanguinoso conflitto Shimoi scrive un epistolario, La guerra italiana vista da un giapponese, nel quale racconta i combattimenti a modo proprio: in quelle battaglie nel fango, terribili e pregne di sangue, il giapponese vede il compimento di quell’Italia gloriosa che aveva intravisto in Dante, capace di compiere grandi sacrifici per il completamento della Patria.
Harukichi Shimoi tra gli Arditi
Spinto da una strana ebbrezza per il sangue, Shimoi resta colpito dall’impeto delle truppe scelte degli Arditi, che si lanciano all’assalto della linea nemica sprezzanti del pericolo, senza il timore della morte, armati di bombe a mano e di pugnali. Egli rivede in loro i principi dei suoi antenati guerrieri, che si immolavano per il proprio signore senza richiedere nulla in cambio: una ricerca della gloria non spinta dalla vanità, ma un eroismo puro, senza secondi fini. Lui, giapponese, si arruola per questo nel corpo degli Arditi e combatte sull’Isonzo, insegnando i rudimenti del karate ai propri commilitoni, attirandosi le loro simpatie; ad un soldato italiano a cui ha appena salvato la vita, che gli chiede, stupito di fronte a quel soldato con gli occhi a mandorla, «Chi sei?», Shimoi avrebbe addirittura risposto: «Un giapponese che ama la sua Patria, come te.»
L’incontro con Gabriele D’Annunzio
Assieme alle truppe italiane Shimoi entra nella Trento liberata nel 1918, e subito si reca a visitare il monumento a Dante Alighieri. La guerra non gli ha fatto dimenticare la poesia: per lui la battaglia è piuttosto il più alto dei componimenti, il verso più bello che abbia mai scritto. L’arte da teorica s’è fatta pratica, la penna è diventata una spada: l’artista si è fatto guerriero, il sangue ribollente d’ardore e anelante la vittoria. C’è un altro poeta, in Italia, che la pensa allo stesso modo, un uomo fuori dall’ordinario conosciuto come il Vate: Gabriele D’Annunzio. Questi, venuto a conoscenza della storia di quello strano figlio di samurai, vuole incontrarlo, e quando finalmente ci riesce lo abbraccia, dicendo: «Fratello! Fratello mio!»; guardandolo meglio, con quegli occhi a mandorla, quella statura minuta, quelle sopracciglia foltissime, aggiunge: «Sebbene non di sangue.»
Harukichi Shimoi a Fiume
Tra i due scatta immediatamente qualcosa, ma la fine della guerra li porta ad un momentaneo allontanamento. La vittoria dell’Italia nel conflitto, però, assume presto i contorni della famosa “Vittoria Mutilata” e D’Annunzio, sfruttando il proprio carisma, si lancia nell’Impresa di Fiume, un’esperienza storica figlia della propria epoca, dove il nazionalismo si fonde con l’epica per dare vita ad una vicenda senza precedenti; la Storia ci racconterà, poi, della velleità dell’iniziativa dannunziana, ma Shimoi ne resta affascinato e vola presto a raggiungere l’amico nell’attuale Croazia, dove sente che la poesia si trasforma davvero in eroismo e in impresa titanica. Lì il Vate comincia a chiamarlo camerata samurai, e Harukichi diventa famoso tra la truppa ma soprattutto diviene, sfruttando il proprio passaporto diplomatico (che gli permette di entrare ed uscire liberamente dalla città), l’intermediario per le comunicazioni tra D’Annunzio ed un tristo protagonista di un pezzo oscuro della storia d’Italia: Benito Mussolini.
L’ammirazione per Mussolini
Shimoi rimane affascinato, come purtroppo milioni di italiani, dall’innegabile carisma e dalla retorica di Mussolini, ed intravede nel Fascismo una possibile cura per il suo paese natale, che crede in decadenza; è perfettamente consapevole di come l’esperienza delle camicie nere non sia applicabile al Giappone, ma vede comunque tra gli ideali del Duce alcuni principi dell’antico Bushidō (la via del guerriero, il codice samurai) che, secondo lui, potrebbero risollevare le sorti dell’Impero del Sol Levante. Per questo diviene uno strenuo sostenitore di Mussolini, e addirittura è tra le Camice Nere che nel 1922 marciano su Roma: con l’avvento della dittatura diviene il più importante ponte di collegamento tra l’Italia e il Giappone, tra due culture lontanissime che vuole a tutti i costi avvicinare.
Mussolini e i Byakkotai, le Tigri Bianche
L’ammirazione diventa presto reciproca, e Mussolini si lascia addirittura convincere a fare da testimonial ad una bevanda analcolica giapponese, oltre a scrivere di suo pugno un messaggio alla gioventù nipponica in cui sottolinea la vicinanza del Fascismo, ancora una volta, al Bushidō. Si racconta che Mussolini stia volentieri ad ascoltare le storie di Shimoi, e resta affascinato da una in particolare: quella dei byakkotai, le Tigri Bianche. Questi, giovanissimi, erano guerrieri samurai al servizio di un daimyo che si ribellò all’imperatore (il daimyo era la più alta carica feudale nipponica); credendo erroneamente che il loro signore fosse stato ucciso, le Tigri Bianche, di 16 e 17 anni appena, diedero la più grande prova di fedeltà possibile per un samurai e praticarono il suicidio rituale, il seppuku. Mussolini ritiene la storia degna della più alta tradizione romana, e ne viene folgorato a tal punto da inviare una colonna pompeiana in Giappone affinché venga posta nel memoriale dei byakkotai, aggiungendovi un’iscrizione:
«S.P.Q.R.
nel segno del littorio
Roma
madre di civiltà
con la millenaria colonna
testimone di eterna grandezza
tributa onore imperituro
alla memoria degli eroi di Biacco-tai
Anno MCMXXVIII – VI era fascista»
Il ritorno in Giappone
Dopo aver fatto da interprete al fondatore del Judo, Jigorō Kanō, in occasione della sua visita in Italia, Shimoi torna poi nella sua terra natale, dove diventa un grande promotore del Fascismo e spinge per la creazione di un’alleanza tra le due nazioni, che avverrà poi con esiti alquanto nefasti. Deluso dal risultato della Seconda Guerra Mondiale torna a dedicarsi esclusivamente agli studi, in particolare alle traduzioni di Dante e D’Annunzio al giapponese; nel dopoguerra rimane sempre ai margini della vita politica, ma conosce e diventa amico di Montanelli durante un suo viaggio in Giappone e gli affida una singolare confidenza sulla vera natura dei rapporti tra Mussolini e D’Annunzio. Shimoi racconta infatti della prima volta in cui aveva consegnato una missiva del Vate al duce, il quale, stufo della testardaggine mostrata dal poeta nella vicenda di Fiume, avrebbe detto: «Ma quand’è che si arrende quel rompicoglioni?»; i due si detestavano, tanto che per D’Annunzio il futuro Duce era «nu cafone», mentre per Mussolini il Vate era «nu pagliaccio». Montanelli racconta poi che, a quel punto, Shimoi lo avrebbe guardato con i suoi occhi a mandorla e gli avrebbe detto: «Chistu lo dico a vui, e a vui solo, tengo ‘a vostra parola guagliò».
La morte di Harukichi Shimoi
Shimoi muore nel 1954, e con lui si spegne un grande studioso di Dante, un appassionato dell’Italia, della sua Storia, delle sue tradizioni; ma purtroppo anche un fascista, un ultranazionalista, un convinto militarista. Certo, Harukichi fu figlio di un’epoca e di un retaggio storico difficili, che lo portarono su posizioni certamente discutibili; è però innegabile il fascino del personaggio, un giapponese con le sopracciglia troppo folte, innamorato dell’Italia, della nostra poesia, nella nostra terra: un giapponese dall’accento napoletano, un samurai dantista con la camicia nera.
Washoe
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