Conversazione nella Cattedrale – Mario Vargas Llosa

DI WASHOE

Lima, metà degli anni Sessanta. Santiago Zavala, soprannominato Zavalita, giornalista disilluso e cinico, incontra in un canile una vecchia conoscenza: è lo zambo Ambrosio, l’antico autista di suo padre; con la sua apparizione riemergono i fantasmi del passato, evocati da una lunga conversazione in un sudicio bar conosciuto come “La Catedral”. È la scintilla da cui si innesca lo spettacolo pirotecnico di “Conversazione nella Cattedrale”, il capolavoro di Mario Vargas Llosa: insieme, Ambrosio e Zavalita ricostruiscono il mosaico che vorrebbe mostrare il momento esatto in cui si è fottuto il Perú, e le loro vite con lui.

“Dalla porta de «La Crónica» Santiago guarda l’avenida Tacna, senza amore: automobili, edifici disuguali e scoloriti, scheletri di pubblicità luminosa che ondeggiano nella nebbiolina, il mezzogiorno grigio. In che momento si era fottuto il Perú?”

Conversazione nella Cattedrale – Incipit

Un paese intrappolato nella mediocrità

Una vista dei quartieri poveri di Lima

Il quadro del Perú che ne viene fuori è ben poco lusinghiero, poiché le pennellate che lo vanno dipingendo descrivono minuziosamente un processo di degradazione collettiva, figlio non di un momento cruciale, come ipotizzava Zavalita, ma piuttosto di una serie di piccole deflagrazioni invisibili che ha lasciato dietro di sé un grande strappo impossibile da ricucire. A farla da padrone, in quel mondo di lamiere arrugginite ed autobus scassati in cui si muove Santiago, sono la frustrazione e la rassegnazione, due grandi zavorre che ostacolano il progresso e impediscono al paese di prendere il volo. E così, il Perú resta impantanato in un provincialismo senza uscita: la pioggerella fine e insulsa che cade su Lima al principio del romanzo, «zampette di zanzare sulla pelle, carezze di ragnatele», è il simbolo perfetto della mediocrità di un paese che non è nemmeno capace di produrre una pioggia come si deve.

Una grande spianata con attorno un muro malconcio di mattoni crudi color cacca, «il colore di Lima, – pensa, – il colore del Perù.»

Conversazione nella Cattedrale – Libro Primo, Cap. I

La dittatura di Odría

Il Generale Manuel Odria

Quando il pensiero dei due dialoganti si tuffa nel passato, tappandosi il naso per evitare di sentirne l’odore nauseabondo, non può che tornare al cosiddetto Ochenio, agli anni della dittatura del generale Manuel Odría. Si tratta di un periodo di repressioni politiche, di ritorno al militarismo, di abusi della polizia, di populismo manipolatore ed interessato e di corruzione, di arricchimento per gli amici del regime e di rovina per gli oppositori. La figura del generale resta un po’ in disparte all’interno del romanzo, prendendo la forma di un nome o poco più che dunque non necessita di essere mascherato; ma ci sono altre figure importanti del regime che assumono un ruolo centrale nella vicenda e che dunque necessitano di un alias, stratagemma necessario in quanto Conversazione nella Cattedrale non vuole essere in alcun modo un romanzo storico. L’esempio più importante è quello di uno dei grandi protagonisti dell’Ochenio, quell’Alejandro Esparza Zañartu che Vargas Llosa ha trasfigurato nella figura odiosa di Cayo Bermúdez, altresì noto con l’eloquente soprannome di Cayo Mierda.

Cayo Mierda

Esparza-Bermúdez fu chiamato da Odría su raccomandazione del generale Zenón Noriega Agüero (nel libro Generale Espina) e messo a capo della repressione politica prima e del Ministero dell’Interno poi; distintosi per corruzione e mancanza di scrupoli, fu destituito nel 1955 a seguito di una rivolta che ne chiedeva la testa. Il personaggio che viene fuori in Conversazione della Cattedrale è un uomo all’apparenza pigro e annoiato, ma dotato di grandi capacità logiche e di un’abilità politica indiscutibile che gli permette di prevedere con precisione il corso degli eventi. Gli piace esercitare il proprio controllo, sugli altri uomini come sulle donne e sulle prostitute che frequenta: è un bracconiere che dissemina con cura il proprio territorio di caccia con trappole affilate, sempre attento ad avere la situazione in mano, sempre provvisto di un piano B. Un personaggio teatrale, che ama compiacersi delle proprie abilità e delle proprie malefatte.

Una delle rarissime fotografie di Alejandro Esparza Zañartu

L’ispirazione per Conversazione nella Cattedrale

Un aiuto nel delineare il personaggio è arrivato a Vargas Llosa direttamente dalle proprie memorie, perché all’epoca in cui frequentava l’università San Marcos fu condotto egli stesso al cospetto di Esparza Zañartu, poiché facente parte di una delegazione che voleva portare ad un gruppo di studenti incarcerati materassi e coperte per la notte. È curioso come dal racconto dell’autore si possano evincere alcune delle caratteristiche che costituiranno la personalità di Cayo Bermúdez.

“Il direttore del Governo ci diede l’appuntamento a metà mattina, nel suo ufficio di Plaza Italia. Fummo presi dal nervosismo, dall’eccitazione, mentre aspettavamo, tra pareti unte, poliziotti in uniforme e in borghese e impiegati stipati in cubicoli claustrofobici. Finalmente, ci fecero entrare nel suo ufficio.

Eccolo, Esparza Zañartu. Non si alzò per salutarci, non ci fece sedere. Dalla sua scrivania ci osservò con tutta calma. Non potrò mai dimenticare quel volto incartapecorito e annoiato. Era uno sgorbio di omino, sulla quarantina o cinquantina, o meglio, atemporale, vestito modestamente, di corpo stretto e infossato, l’incarnazione dell’insignificanza, dell’uomo senza qualità (fisiche, almeno). Ci fece un cenno quasi impercettibile affinché dicessimo che cosa volevamo, e , senza aprir bocca, ascoltò coloro di noi ai quali era toccato parlare – balbettare – spiegargli dei materassi e delle coperte. Non muoveva un muscolo e sembrava avere la mente da un’altra parte, ma ci esaminava come fossimo insetti.

Infine, con la stessa espressione di indifferenza, aprì un cassetto, sollevò un plico di fogli e ce lo agitò in faccia mormorando: «E questo?» Nella sua mano ballonzolavano vari numeri del giornale clandestino Cahuide. Disse che sapeva tutto ciò che succedeva nel San Marcos, persino chi aveva scritto quegli articoli. Ci ringraziava per occuparci di lui in ogni numero. Però ci diceva di fare attenzione, perché all’università si andava per studiare e non per preparare la rivoluzione comunista. Parlava con una vocetta senza spigoli né sfumature, con la povertà di linguaggio e gli errori di chi non legge un libro da quando andava a scuola.

Non ricordo quello che successe con i materassi, però ricordo la mia impressione allo scoprire quanto sproporzionata fosse l’idea che si era fatto il Perú del tenebroso responsabile di tanti esili, crimini, censure, delazioni, carcerazioni rispetto alla mediocrità che avevamo di fronte a noi. Uscendo da quell’intervista seppi che prima o poi avrei scritto ciò che alla fine sarebbe stato il mio romanzo Conversazione nella Cattedrale.”

Fonte: Wikipedia

Un’ulteriore curiosità: quando un giornalista chiese a Esparza Zañartu cosa ne pensasse del personaggio di Bermúdez e del romanzo, questi ripose dicendo: «Se Vargas Llosa mi avesse consultato, gli avrei raccontato cose più interessanti.»

Zavalita e la scelta di “fottersi”

Una veduta di Miraflores, il quartiere ricco di Lima dove Santiago viveva con la famiglia

La situazione del Perú all’epoca non rendeva certo semplice crescere, ed è infatti nella situazione politica e sociale del paese che Zavalita ricerca la causa della piega presa dalla sua vita, o meglio il motivo per cui egli stesso si è “fottuto”. Occorre precisare che c’è sicuramente chi sta peggio di lui: Santiago è infatti figlio di Fermín Zavala, un ricco borghese che ha saputo trarre grandi vantaggi dalla propria amicizia con il regime. È forse proprio la posizione della famiglia, l’altezzosità della madre, le troppe occasioni offerte al fratello maggiore Faville (El Chispas nella versione originale), il tappeto rosso che vede già steso di fronte a sé ciò che lo porta ad allontanarsi da un mondo di cui non si sente parte, perché frutto non delle proprie capacità ma di una nascita fortunata. È la scelta di un uomo che non vuole sentirsi colluso con i potenti, ma che non vuole nemmeno intraprendere una lotta senza speranza come quella di certi compagni d’università e che per questo decide vivere in disparte, in un appartamento misero e con una moglie che non è sicuro di amare davvero. Zavalita sceglie di “fottersi”, perché «in questo paese chi non si fotte finisce per fottere gli altri.»

L’opposizione in Conversazione nella Cattedrale

I compagni di università di Santiago a cui si accennava sono parte di una serie di organizzazioni studentesche che rappresentano l’unica vera opposizione al regime odriista, organizzazioni di cui tra l’altro Vargas Llosa aveva fatto parte. Si tratta tuttavia un dissenso sterile, tenuto sotto controllo dal governo e non ancora schiacciato soltanto perché ritenuto incapace di ottenere un qualsiasi risultato: quei gruppi sono un’accozzaglia di ragazzini che vogliono giocare a fare i grandi, appropriandosi di concetti altrui (come la lotta operaia o il significato di ragione ed ateismo) di cui non sono in grado di comprendere il vero significato.

La Universidad de San Marcos

La sinistra e la visione politica di Vargas Llosa

In queste organizzazioni si può scorgere una rappresentazione della situazione della sinistra peruviana all’epoca di Odría, accecata dall’intransigenza («ragionava come se desse colpi d’ascia») e troppo abituata a catalogare e, di conseguenza, causare divisioni interne: tra apristi, trotzkisti e marxisti c’è una confusione tale che organizzarsi diventa impossibile, permettendo al regime di dormire sonni tranquilli. In questo quadro desolante c’è molto del pensiero politico di Vargas Llosa il quale, dopo la giovanile adesione al marxismo, finì per abbracciare negli anni sessanta le posizioni liberali della destra moderata, deluso dai troppi vaneggiamenti e dall’ipocrisia imperante tra i ranghi della sinistra.

Lo stile unico di Conversazione nella Cattedrale

Conversazione nella Cattedrale è un’opera importante nella storia della letteratura non soltanto per il contenuto, per la sua condizione di “romanzo totale” di una nazione, ma anche per lo stile articolato che ne fa un’opera maestra. Ancor più che nel precedente La Casa Verde, Vargas Llosa scrive attuando una sovrapposizione continua di sensazioni, di pensieri, di immagini, di scene e di dialoghi che si susseguono con dissolvenze quasi cinematografiche, fino a comporre l’atmosfera di decadenza e rassegnazione che caratterizza il romanzo. La corrispondenza tra fabula e intreccio (per usare due termini cari ai professori d’italiano) viene sventrata dall’autore, e il tempo e lo spazio vengono fatti a pezzi e poi ricomposti con abilità meravigliosa, creando una sorta di gioco in cui il narratore rivela la storia al lettore un pezzo alla volta, guidandolo in una comprensione totale dei fatti e delle dietrologie senza che per questo la suspense venga a mancare.

Si può immaginare come un lavoro del genere abbia richiesto all’autore uno sforzo sovrumano, ed in effetti così è stato; Vargas Llosa arrivò infatti a scrivere in una lettera: «Sono stufo di lavorare a questo libro.» Fortunatamente, il maestro peruviano seppe superare le difficoltà e terminare ciò che aveva cominciato, lasciando alla posterità un’opera che meriterebbe sicuramente un riconoscimento maggiore di quello che le viene dato oggigiorno, specie in Italia.    

Mario Vargas Llosa

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