Cent’anni di solitudine – Gabriel García Márquez

DI WASHOE

La storia dei Buendía, di Macondo, ma anche della Colombia, dell’America Latina e dell’umanità intera: tutto questo, e molto di più, è Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad, 1967), il capolavoro di Gabriel García Márquez che gli è valso Premio Nobel per la Letteratura. Se poi si aggiungono, ad oggi, le più di cinquantamilioni di copie vendute, ci si rende presto conto di essere di fronte ad un vero e proprio fenomeno culturale, che a più di cinquant’anni dall’uscita non ha perso un solo grammo del suo fascino irresistibile.

L’origine dei Cent’anni di solitudine

Cent’anni di solitudine narra la storia di sette generazioni della famiglia Buendía, dal capostipite José Arcadio fino all’ultimo degli Aureliani, in un secolo in cui viene condensata una delle storie più ricche e meravigliose mai concepite da mente umana. La vicenda trae origine dal matrimonio di due primi cugini, José Arcadio Buendía e Úrsula Iguarán; quest’ultima, spaventata dalla leggenda di un figlio di due cugini nato con una coda di porco, rifiuta di consumare il matrimonio, e José Arcadio viene così accusato di impotenza da un certo Prudencio Aguilar. Buendía, scottato dall’insulto, lo uccide in un duello d’onore, e finalmente la donna si concede al marito; tuttavia, la giovane coppia è tormentata dal rimorso e dal fantasma dell’uomo ucciso, e decide allora di lasciare il paese natale e di partire per un viaggio attraverso la selva colombiana. Si incamminano così insieme ad un gruppo di famiglie di amici e, dopo anni di peregrinazioni, fondano il paese di Macondo nel punto in cui José Arcadio Buendía ha sognato una città fatta di case con le mura di specchi.

La seconda generazione

Durante la traversata nasce il loro primogenito, un bambino comune senza la temuta coda di porco, il quale viene battezzato con lo stesso nome del padre: José Arcadio. Questi, dotato di una forza sovrumana e di un membro virile spropositato, una volta cresciuto fugge dalla casa dei genitori con un gruppo di zingari per poi tornare anni dopo con il corpo ricoperto di tatuaggi e con la pelle bruciata dal sole, completamente estraneo alla famiglia. Il fratello Aureliano, invece, il primo essere umano nato a Macondo, è dotato di straordinarie capacità di chiaroveggenza ed è nato con gli occhi aperti: crescendo sposa una bambina, Remedios Moscote, che muore per un aborto spontaneo, e parte per condurre una guerra infinita che lo trasforma nel leggendario colonnello Aureliano Buendía. La coppia dà alla luce anche una bambina, Amaranta, ne adotta un’altra, Rebeca, discendente di parenti che nessuno ricorda, e come se non bastasse alleva Arcadio, nato da José Arcadio “junior” e Pilar Ternera, amica di Úrsula, che non conoscerà mai la verità sulla propria nascita ma si crederà sempre figlio dei suoi nonni.

Un’illustrazione del colonnello Aureliano Buendía

La genealogia dei Buendía

Si sussegue poi tutta una serie di generazioni in cui i nomi si ripetono, creando una situazione alquanto confusionaria: Aureliano ha un figlio da Pilar Ternera di nome Aureliano José e diciassette figli da diciassette donne diverse, tutti battezzati come Aureliano e tutti morti in una sola notte con un colpo sparato in testa; Arcadio ha una figlia, Remedios la bella, e due figli, i gemelli José Arcadio Segundo e Aureliano Segundo; quest’ultimo genera due figlie, Meme (diminutivo di Renata Remedios) e Amaranta Úrsula, e un figlio, José Arcadio; infine, Meme dà alla luce Aureliano Babilonia, il quale fa un figlio con la zia Amaranta Úrsula e lo battezza Aureliano. Questi è l’ultimo dei Buendía, l’essere mitologico tanto temuto nato con una coda di porco, con la cui morte per mano delle formiche si conclude l’intricata storia famigliare, fatta di sofferenza, incesti, amori proibiti e solitudine.

L’albero genealogico dei Buendía, da Wikipedia

Lo zingaro Melquíades

Quest’elenco infinito ha il solo scopo di dare l’idea di quanto sia complicata la storia di Cent’anni di solitudine, specie se si pensa che al ripetersi dei nomi si aggiunge anche quello di una serie di caratteristiche fisiche e caratteriali che si trasmettono da una generazione all’altra, con i José Arcadio che sono forti ed intraprendenti, gli Aureliano che invece sono malinconici ed introversi, e le Remedios che sono eterne bambine. Non sono però solo gli appartenenti alla stirpe dei Buendía a rivestire un ruolo centrale, perché nel cuore della storia si inserisce un uomo esterno alla dinastia che rappresenta un riferimento importante per la famiglia: il gitano Melquíades. Questi, arrivato a Macondo con le prime generazioni di zingari che si imbattono nel paese, diventa un grande amico di José Arcadio Buendía e un araldo del progresso, portando con sé meraviglie della scienza come le calamite e il cannocchiale; dopo esser morto di febbri nelle secche di Singapore, resuscita miracolosamente e si stabilisce presso la casa dell’amico, dove si occupa fino alla fine dei suoi giorni della stesura di pergamene incomprensibili. In realtà gli scritti di Melquíades sono illeggibili perché redatti in sanscrito: l’opera del gitano è una profezia, che racconta tutta la vicenda dei Buendía dalla prima alla settima generazione e che resta intraducibile per cento anni, fino a quando Aureliano Babilonia non riesce in una tardiva interpretazione.

Melquiades in un’illustrazione di Juan Manuel Lugo

La chiave di lettura di Cent’anni di solitudine

Proprio nelle pergamene di Melquíades si trova la chiave di lettura della storia, il suo significato profondo che spiega anche il titolo del romanzo e che è racchiuso nell’ultima frase della sua profezia: «Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.» La solitudine è sempre stata infatti il vero tratto distintivo dei Buendía, e ciascun membro della famiglia l’ha sperimentata a modo proprio: per il capostipite si è presentata sotto forma di follia, per Úrsula di cecità; per José Arcadio è stata il ripudio della famiglia, per Aureliano l’incapacità di amare; per Rebeca l’abbandono e l’incomprensione, per Amaranta il rancore e l’invidia; per Arcadio la superbia, per Aureliano José il desiderio incestuoso; per Remedios la bella la non appartenenza a questo mondo, per José Arcadio Segundo l’incredulità degli altri; per Aureliano Segundo l’ingordigia e la pigrizia, per suo figlio José Arcadio la menzogna; per Meme la ribellione, per Amaranta Úrsula l’appetito sessuale; per Aureliano Babiliona l’ignoranza delle proprie origini, per l’ultimo della stirpe la coda di porco.

La circolarità del tempo: per i Buendía e per Macondo è sempre lunedì

Il vento apocalittico che arriva nel finale a ripulire il mondo dal ricordo della famiglia Buendía sembra spezzare un incantesimo, che aveva fatto sì che a Macondo il tempo si ripiegasse su se stesso, in un circolo infinito, un ripetersi di nomi, di fatti, di vizi. Forse il primo José Arcadio Buendía, che tutti avevano creduto pazzo, era in realtà meno folle di quanto si pensasse e aveva compreso la verità, rendendosi conto del fatto che era sempre lunedì, che era sempre la stessa storia, che il tempo non passava mai e si ripeteva all’infinito, sempre uguale a se stesso. La storia di Buendía è un simbolo della storia dell’umanità, che sembra ricadere senza posa negli errori del passato: anche se le generazioni passano le persone restano, intrappolate in un circolo vizioso che porta a ricreare nei figli gli errori dei genitori, e sarà sempre così, fino a quando non giungerà un uragano capace di rompere la maledizione e consentire all’uomo di accedere a quel progresso che fin’ora è stato solamente un’illusione.

Cent’anni di solitudine per García Márquez: il romanzo di ciò che gli è stato raccontato

Oltre all’aspetto, per così dire, filosofico e antropologico, Cent’anni di solitudine può anche essere letto sotto il punto di vista personale dell’autore, che lo ha disseminato qua e là di frammenti di storie dal suo passato; ne è un esempio l’ascensione al cielo di Remedios la bella, un racconto che gli avevano narrato da bambino e che in realtà serviva a coprire la vergogna di una fuga d’amore, o Aureliano Babilonia che, come il piccolo García Márquez, viene terrorizzato dalla nonna con storie di fantasmi, di morti e di santi vendicativi per non avere il fastidio di dover badare a lui. Tuttavia, l’autore stesso ha tenuto a precisare come la storia dei Buendía sia il romanzo di “ciò che gli è stato raccontato” e non il romanzo di “ciò che ha vissuto”: al contrario di quanto ha ritenuto la critica Cent’anni di solitudine è meno suo di quanto non lo sia, ad esempio, L’autunno del patriarca (1975).

«Cent’anni di solitudine è un libro scritto con l’esperienza dei miei genitori, della gente che conobbi da bambino, di leggende popolari, cose che mi hanno raccontato, notizie che ho letto sui giornali e ricerche che ho fatto su certi episodi: è cioè costituito da esperienze raccontate da altre persone. Al contrario L’autunno del patriarca, scritto a quarantacinque anni, è un libro composto totalmente di esperienze personali cifrate; probabilmente sono mie memorie, o parte delle mie memorie.»

Citazione tratta dall’intervista a Gabriel García Márquez girata da Germán Castro Caycedo per RTI TV nel 1976
L’intervista completa, in lingua originale; la citazione è al minuto 29:45.

Macondo e la Colombia

Se non simboleggia la storia personale dell’autore, tuttavia, è evidente come Cent’anni di solitudine sia un’allegoria della traiettoria del suo paese natale, la Colombia. La fondazione di Macondo non è altro che il simbolo della nascita del paese sudamericano, e diversi fatti presenti nel romanzo si ispirano ad avvenimenti reali: i trentadue sollevamenti armati promossi da Aureliano Buendía sono l’eco di quella Guerra dei Mille Giorni che sconvolse il paese tra il 1899 e il 1902, e la figura del colonnello è ispirata a quella del generale liberale Rafael Uribe Uribe; il trattato di Neerlandia che pone fine alle guerre civili è un fatto storico, che ebbe luogo il 24 ottobre 1902, così come lo è il massacro degli scioperanti, avvenuto a Santa Marta nel 1928; l’assassinio dei diciassette Aureliani sarebbe poi allegoria del periodo di omicidi politici che prende il nome di La Violencia, mentre la compagnia bananiera è l’immagine di quella United Fruit Company che fece il bello e il cattivo tempo in Sudamerica tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. 

Il generale Rafael Uribe Uribe, a cui è ispirato il colonnello Aureliano Buendía

Macondo e l’America Latina

Se si allargano ulteriormente le vedute, però, ci si rende conto di come Macondo sia un simbolo non solo della Colombia, ma dell’intera America Latina: quello che un tempo era un paradiso felice viene corrotto dal falso progresso del colonialismo che, piuttosto che migliorare la condizione umana, la ingabbia e la costringe dietro a una rete di metallo. I colonizzatori possono essere rappresentati, in Cent’anni di solitudine, da due figure: Fernanda del Carpio e la compagnia bananiera. La prima, l’algida moglie di Aureliano Segundo, giunge in casa Buendía e, come gli europei nel Nuovo Mondo, se ne impadronisce approfittando della debolezza dei vecchi padroni, imponendo le sue regole artificiose in un luogo dove si seguivano i ritmi della natura e si «mangiava non all’ora di pranzo ma quando si aveva fame». La compagnia bananiera rappresenta invece la successiva egemonia Nordamericana, che con il pretesto di portare il progresso ha assoggettato la popolazione e ha trasfigurato Macondo, sfruttandolo per un proprio tornaconto economico. Insomma, la casa dei Buendía e la loro cittadina sono stati travolti dall’uragano della modernità, e il paese con le case dalle mura di specchi è diventato il simbolo del sogno di un mondo migliore promesso dall’America rivelatosi presto essere un’illusione: non una città degli specchi, ma dei miraggi.

«la ciudad de los espejos ( o los espejismos)»

Il successo e l’abilità dell’autore

Il successo di pubblico di Cent’anni di solitudine è dovuto senza dubbio alla grande abilità del suo autore, capace di soddisfare ogni palato con uno stile ricercato ed elegante, un ritmo quasi musicale ed una capacità rara di dipingere immagini: le farfalle, i fiori gialli, il fiume di cristallo, l’ascensione di Remedios la bella. Certo, la trama così densa di dettagli e di storie che si intrecciano, nascono, vengono abbandonate e poi riprese oppure condensate in una ventina di parole, e i nomi e le vicende che si ripetono in un turbinio senza posa lo rendono un libro non semplice da leggere, ma è impossibile non lasciarsi ammaliare da una narrazione che ha dentro di sé un intero universo d’umanità. Insomma, scorrendo le pagine si viene immancabilmente ipnotizzati dalla storia dei José Arcadi e degli Aureliani, delle Remedios e di Úrsula e di Melquíades, e delle loro immagini mitiche, dei profumi delle case bianche e delle strade rumorose, della storia di Macondo che è in realtà la storia della Colombia, o dell’America Latina, o forse di ognuno di noi, perché in fondo siamo tutti, in mille modi diversi, condannati dal momento in cui ci affacciamo al mondo a sperimentare i nostri cent’anni di solitudine.

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